Negli ultimi anni, il continente africano ha assunto una valenza crescente nella geografia economica italiana. Le nostre aziende stanno investendo in tutta l’area, la cui importanza strategica è in costante aumento a causa della competizione tra le due superpotenze economiche, Cina e Stati Uniti, che si contendono le materie prime dell’Africa, primo fornitore mondiale di oro, platino, diamanti, manganese, cromo e nichel.
Non c’è da dimenticare poi il Patto d’Africa stipulato lo scorso anno fra il nostro governo e gli esecutivi di numerosi paesi africani per favorire una migliore partnership (sicurezza e peace-keeping, crisi regionali e conflitti dimenticati, diritti e democrazia, cooperazione e sviluppo) e la promozione del capitale umano tramite interventi di microcredito.
Quest’ultimo punto, in particolare, permette di creare scambi tra attività economiche e finanziarie basati sulla fiducia reciproca, piattaforma fondamentale per ogni forma di collaborazione.
Da tempo, i più autorevoli economisti dello sviluppo sono concordi nel ritenere che in Africa si gioca la grande sfida del futuro. L’Italia non può mancare questa opportunità, rafforzando i sistemi di partenariato e cambiando la politica dei rapporti: da paese donatore ad attore di sviluppo nei settori della tecnologia, della formazione, dell’agricoltura e del turismo.
I partner economici africani con cui hanno maggiormente collaborato le aziende dello Stivale sono l’Egitto, l’Angola e il Mozambico. In questi paesi il sistema Italia ha costruito nuove partnership e joint venture tra le nostre imprese e quelle locali, consapevole che negli anni futuri, quello africano sarà il continente in cui investire.
Non bisogna però dimenticare il contributo che le imprese italiane possono dare allo sviluppo africano, con un approccio diverso, un’opportunità per le nostre aziende e per gli africani stessi, distante dai termini di sfruttamento e assistenzialismo.
Su tutti l’esempio di Luigi Cremonini, fondatore di un impero nel settore alimentare, arrivato ventuno anni fa in Angola. Mentre infuriava la guerra civile fra il governo di Luanda e il movimento ribelle dell’Unita, l’imprenditore emiliano decise coraggiosamente di investire su un paese con un potenziale immenso, distribuendo carni e producendo hamburger e salumi.
Oggi il Gruppo Cremonini, con la controllata Inalca, è presente anche in Congo Brazzaville, nella Repubblica democratica del Congo, in Mozambico e in Algeria, e presto arriverà anche in Nigeria, un paese di 150 milioni di abitanti che costituiscono il 25 per cento dell’intera popolazione africana, un bacino di consumatori enorme che non bisogna lasciare esclusivamente alle economie aggressive dei paesi emergenti.
Il made in Italy è considerato un punto di riferimento dai governi africani, ormai affrancati dall’avvicinamento assistenzialista e in grado di sceglier i propri partner commerciali per sviluppare settori strategici della loro economia. In questa selezione, sempre più spesso, preferiscono il modello italiano a quello cinese e brasiliano.
Il ritmo attuale di crescita dei paesi africani è molto veloce e le imprese italiane non possono perdere questa occasione, anche se tutto ciò potrebbe sembrare un paradosso, alla luce delle pessime situazioni in cui versano molte di esse, poste a dura prova dalla grave crisi economica.
Ma per molte piccole e medie imprese italiane, la crisi finanziaria che si è abbattuta sul mondo intero, minando i fondamentali di grandi economie, è stata un impulso per crescere in efficienza e in innovazione e un’opportunità per programmare nuovi prodotti, per ampliare mercati, fatturato e redditività.
L’aspetto difficile della strada verso la ‘ricrescita’ delle Pmi italiane è costituito dall’accesso al credito. Solo il 12% delle Pmi ha, infatti, ricevuto l’intera somma chiesta, il 32 ne ha ricevuto gran parte, e per il 35% la capacità di accesso ai finanziamenti è peggiorata.
Un altro aspetti difficile da affrontare per il 29% delle Pmi italiane è la ricerca di nuovi clienti, mentre il 41% delle aziende guarda al futuro con ottimismo e si attende un incremento del fatturato.
Giusto per operare un raffronto, il 77% delle Pmi cinesi si aspetta una crescita dei ricavi, mentre circa il 50% delle aziende britanniche stima un incremento, anche sensibile. Interessante la percezione del mercato delle imprese del gigante asiatico: per il 36% il problema maggiore è trovare nuovi clienti, per il 34% è l’aumento della concorrenza e per il 30% è individuare e fidelizzare personale specializzato.
La Cina ha puntato molto sul Sudafrica, dando il via ad una strategia articolata in direzione di tutte le diverse aree del mondo: cooperazione con India e Pakistan, collaborazione con Russia ed Europa, convivenza con gli Stati Uniti, espansione in Africa e in America meridionale, rapporti ‘intelligenti’ con i vicini orientali.
Non a caso, negli ultimi anni, Pechino ha moltiplicato in maniera esponenziale i suoi investimenti nel continente africano, per conquistare i giacimenti di risorse minerarie di cui ha bisogno per alimentare la propria crescita, ma anche per dotarsi di nuova forza lavoro a basso costo.
Inoltre, le aziende cinesi, promettendo e assicurando cospicui investimenti sempre arrivati, vincono appalti su appalti nel continente africano, grazie anche agli aiuti governativi e alla totale assunzione da parte dello Stato del rischio di impresa.
Ora con loro potrebbero arrivare a convivere in Africa anche le imprese italiane, spinte proprio da una rinnovata necessità di ampliare i propri mercati e incrementare gli scambi con quelli ancora poco esplorati, dove valorizzare prodotti, idee e progetti.