Era prevedibile che il rinvio della decisione sul bilancio dell’Unione europea per il 2014-2020, avrebbe suscitato clamori e preoccupazioni anche nel settore degli aiuti allo sviluppo. One.org, l’organizzazione umanitaria fondata dal frontman degli U2 Bono Vox, ha lanciato il suo allarme ai Capi di stato e di governo europei, denunciando la proposta dei leader dei 27 e del presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy di tagliare di 13 miliardi le spese internazionali, in cui sono inclusi gli aiuti per lo sviluppo.
Eloise Todd, direttore di One.org a Bruxelles, ha sottolineato come “i tagli previsti eliminano fondi essenziali che in soli sei anni hanno consentito l’accesso all’acqua potabile a 31 milioni di persone, vaccinato 5,5 milioni di bambini e permesso la scolarizzazione di altri nove milioni di bimbi”.
Eppure l’approccio emergenziale dell’Ong che fa capo a Bono Vox, potrebbe essere non condiviso da molti studiosi che si occupano di economia dello sviluppo e da tempo hanno cominciato a prendere le distanze dagli aiuti umanitari.
Gli stessi studiosi che avevano accolto positivamente l’ultima rilevazione dell’African Economic Outlook, la pubblicazione dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (Ocse) e della Banca di sviluppo africana, che lo scorso maggio ha registrato come dopo anni di dipendenza economica, almeno un terzo dei paesi africani, tra cui Algeria, Guinea Equatoriale, Gabon e Libia, hanno ricevuto aiuti inferiori al 10% del loro gettito fiscale.
Questi paesi hanno dimostrato la capacità di sostituire il sostegno dei donor con la mobilitazione delle risorse nazionali. Restano però i due terzi dei paesi africani che continuano a rimanere nel novero di quelli che dipendono dalle politiche degli aiuti. Una chiara dimostrazione che in queste politiche qualcosa non funziona.
Effettivamente, per prestare attenzione a una vasta letteratura sul tema, si potrebbe dire che un buon numero di economisti ha sostenuto, paradossalmente, la tesi che il continente nero sarebbe addirittura più povero di prima e proprio a causa dei troppi aiuti allo sviluppo ricevuti.
A capo di questa corrente di pensiero potrebbe essere simbolicamente posto Peter Thomas Bauer, economista ungherese, ritenuto il profeta della globalizzazione come antidoto al sottosviluppo.
Lord Bauer era solito ripetere che avere denaro è il risultato, non la premessa, del processo di arricchimento, che per partire ha bisogno di istituzioni che garantiscano la sicurezza nei possessi, di norme chiare e semplici, di un atteggiamento non predatorio della politica rispetto all’economia.
Nella sintesi dell’accademico di Cambridge i fattori dello sviluppo sono solo due: da una parte, la netta definizione dei diritti di proprietà; dall’altra, il capitale umano, gli individui, che con la loro voglia di intraprendere, con la loro capacità di fare, sono gli unici a poter costruire ricchezza.
L’economista inglese Keith Marsden ha sviluppato la tesi di Bauer con nuovi elementi. Marsden, richiamandosi a un articolo pubblicato sul Wall Street Journal nel 1985, a distanza di venti anni, alla vigilia del G8 di Gleeneagles, tornò a dimostrare sulla medesima testata come la crescita economica è positivamente correlata con la crescita del credito ai privati.
Secondo lo studioso britannico, gli aiuti esteri non sono uno strumento adeguato, poiché troppo spesso finiscono per rimpinguare i conti esteri di classi politiche corrotte. Contemporaneamente, concentrando risorse nello stato, rendono più appetibile la carriera all’interno della pubblica amministrazione che nel settore privato. Da ciò è facile evincere che di tutto l’Africa ha bisogno, fuorché di nuovi e più robusti incentivi al parassitismo ed alla corruzione.
Anche la giovane economista africana, Dambisa Moyo, aderisce a questo filone di idee centrando il tema del suo libro “La carità che uccide” (pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2010) sugli aiuti esteri come causa primaria del ritardo dello sviluppo in Africa.
L’ex consulente di Goldman Sachs, originaria dello Zambia, identifica proprio nel meccanismo messo in opera dagli aiuti il maggiore freno allo sviluppo dei paesi africani, poiché tali flussi finanziari giunti nel continente nero avrebbero nella maggior parte dei casi finito per finanziare governi corrotti, per distorcere i meccanismi di mercato, per impedire la nascita di fonti alternative di finanziamento finendo per coltivare una sorta di cultura della dipendenza.
Se tali affermazioni hanno una solida base empirica riconducibile al fatto che molti paesi del continente nero sono rimasti intrappolati nella stagnazione economica e in forme estreme di instabilità istituzionale, d’altro canto si può trovare a tale analisi il difetto di non cogliere negli aiuti unicamente degli strumenti il cui valore è condizionato dall’utilizzo che ne viene fatto.
È forse più giusto dire, in relazione alle opinioni radicali della Moyo, che è un bene, innanzitutto, considerare i flussi economici che giungono dai paesi più ricchi come “utensili” limitati, facilmente distorcibili e dall’efficacia parziale, che devono essere integrati con altri mezzi capaci di catalizzare i processi di sviluppo economico.
La soluzione a questo meccanismo perverso non sembra dunque passare per l’abolizione degli aiuti. Si tratta invece di dare una maggiore coordinazione affinché stimoli lo sviluppo dei meccanismi di controllo democratici dei paesi che li ricevono e la crescita di una imprenditoria locale sana, soprattutto contadina. Sostenere l’idea che lotta contro miseria e povertà siano in primo luogo compito dei governi africani, sarebbe un bel passo in avanti.