Proprio ieri (anche se alcuni fonti indicano il 29 maggio) ricorreva il 46esimo anniversario della dichiarazione di indipendenza del Biafra, alla quale fece seguito lo scoppio della guerra civile fra la regione sud-orientale della Nigeria, con la maggior parte della popolazione di etnia Igbo, cristiana e animista, e il governo centrale che fece ricorso alle armi per impedire la secessione della regione. Prima di riassumere le vicende belliche e la conseguente spaventosa situazione di emergenza umanitaria, che fece seguito a uno dei più sanguinosi conflitti del novecento, è opportuno evidenziare, che quella del Biafra non fu solo una guerra etnica come quelle che ancora oggi insaguinano alcuni paesi dell’Africa.
La ribellione del Biafra fu originata da uno scontro fra diverse concezioni dello Stato e del governo, il cui detonatore è racchiuso nella spartizione di risorse economiche, in primis il petrolio. Tutto ebbe inizio il 15 gennaio 1966, quando, sulla base di un’accusa di brogli elettorali, alcuni reparti dell’esercito nigeriano diedero luogo ad un colpo di stato contro il governo federale che portò il generale Johnson Aguiyi-Ironsi alla carica di presidente. Nel golpe erano coinvolti principalmente militari Igbo, ai quali apparteneva lo stesso Ironsi sospettato di aver concesso promozioni a numerosi Igbo a spese di graduati Yoruba e Hausa.
Il 29 luglio, un altro gruppo di ufficiali organizzò un ulteriore colpo di stato, che portò al potere il tenente colonnello, poi generale, Yakubu Gowon, uomo di mediazione fra le parti. Gowon cercò di accrescere i poteri del governo federale e rimpiazzò i governi regionali con dodici governi statali. Le tensioni etniche, scaturite dal fatto che fossero stati proprio gli ufficiali Igbo ad organizzare il colpo di stato, condussero tra i mesi di maggio e settembre 1966 al massacro alle minoranze Igbo presenti nelle regioni del nord.
Trascorso poco meno di un anno dagli eccidi di massa, il tenente colonnello Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu, che amministrava la regione sud-orientale del Nigeria, abitata da 11 milioni di Igbo, dichiarò ufficialmente la secessione della Repubblica del Biafra con capitale Enugu e le sue truppe iniziarono a confiscare le risorse federali.
La Nigeria rispose inizialmente con un blocco economico e dopo diversi tentativi di instaurare un dialogo diplomatico, il 6 luglio 1967 decise di invadere l’enclave secessionista. Il 12 luglio l’esercito governativo espugnò la città di Garkem e due giorni più tardi fece il suo ingresso a Nsukka. La controffensiva del Biafra partì il 19 luglio, con l’ingresso delle truppe nella zona centro-occidentale della Nigeria, oltre il fiume Niger e attraverso Benin City, capitale dello Stato di Edo, fino a raggiungere il 21 agosto la città di Ore, nello Stato di Ondo, vicino al confine con il Benin.
Le forze del Biafra si vennero così a trovare ad appena 200 chilometri dalla capitale Lagos. Per respingere l’avanzata, lo Stato maggiore nigeriano dovette schierare quattro battaglioni della seconda divisione di fanteria. Dopo aver ripreso Benin City, il 22 settembre, i soldati federali tentarono poi di oltrepassare il fiume Niger, ma per ben tre volte furono respinti. Nel nord, le forze biafrane furono costrette a ritirarsi dai territori non Ibo, mentre la capitale del Biafra, Enugu, fu presa il 4 ottobre, obbligando il governo di Ojukwu a trasferire la capitale a Umuahia, dove rimase per più di due anni.
All’inizio del 1968, non riuscendo a fare breccia in modo decisivo nelle linee nemiche, i nigeriani diedero inizio a un lungo assedio mettendo in atto un blocco navale, terrestre e aereo. I federali registrarono progressi fra aprile e giugno, conquistando il 19 maggio Port Harcourt e stringendo ulteriormente il cerchio attorno al Biafra.
Il protrarsi del blocco, unito alle incursioni dei nigeriani nelle fattorie del Biafra, portò a un disastro umanitario, con innumerevoli morti per fame fra i civili Ibo. Le immagini dei bambini gravemente denutriti fecero il giro del mondo e i leader biafrani iniziarono a chiedere aiuto ai paesi stranieri nel tentativo di porre fine a quello che definirono un autentico genocidio. Molti volontari organizzarono voli in Biafra, spezzando l’embargo aereo per portare medicine e cibo. I volontari furono in più occasioni attaccati dall’esercito regolare e portarono all’estero la propria testimonianza sulle condizioni disastrose in cui versava il popolo del Biafra.
Per tutto il 1968 e parte del 1969, difficoltà logistiche impedirono alle forze nigeriane di porre fine all’aspro conflitto, pur riuscendo a ridurre progressivamente l’estensione del territorio controllato dal Biafra. Le milizie biafrane tentarono un’ultima disperata controffensiva nel giugno del 1969, sostenuti anche da mercenari stranieri, come il conte svedese Carl Gustav von Rosen, che condusse una serie di attacchi aerei contro gli aeroporti nigeriani. Pur presi alla sprovvista, i nigeriani riuscirono a respingere il contrattacco e continuare le operazioni di guerra. Il 23 dicembre 1969, una divisione nigeriana riuscì a spezzare in due la repubblica ribelle. L’offensiva finale fu lanciata il 7 gennaio 1970.
La città di Owerri, dove era stata spostata la capitale dopo la caduta di Umuahia, fu espugnata il 9 gennaio e due giorni dopo fu la volta della città di Uli. Il 13 gennaio si arrese anche l’ultima roccaforte biafrana, Amichi. In pieno collasso militare e umanitario, Ojukwu fuggì in esilio in Costa d’Avorio, lasciando al suo luogotenente Philip Effiong l’ingrato compito di occuparsi della resa.
La Repubblica del Biafra ebbe così breve vita, concludendo la sua esperienza di autogoverno il 15 gennaio 1970. Durante i 32 mesi della sua esistenza venne riconosciuta solo da cinque paesi: Gabon, Haiti, Zambia, Costa d’Avorio e Tanzania. Tuttavia, malgrado la mancanza di un riconoscimento ufficiale, altri Stati fornirono assistenza militare al Biafra e in modo particolare Francia, Israele, Rhodesia, Benin e Sudafrica.
Ma per la sopravvivenza della Repubblica del Biafra risultò cruciale il sostegno del Portogallo, che nella sua colonia di Sao Tomè e Principe stabilì un centro di raccolta di aiuti umanitari per fare fronte ad un’emergenza senza precedenti, tenendo conto che la maggior parte delle circa tre milioni di persone decedute nel corso del conflitto fu vittima della fame e delle malattie.
Come ritorsione nei confronti degli Igbo, il governo federale, nell’immediato dopoguerra, applicò una serie di misure restrittive come la limitazione all’accesso ai conti correnti e diede corso a pesanti discriminazioni nell’impiego pubblico e spesso anche in quello privato. Mentre l’amministrazione di alcune delle città con forte presenza Igbo venne affidata a gruppi etnici rivali come gli Ijaw e Ikwerre.
Senza contare, che il nome Biafra è stato cancellato da tutte le mappe geografiche della Nigeria e quello che per tre anni fu uno Stato indipendente ora è un territorio smembrato in ben nove Stati federati della Repubblica di Nigeria (Enugu, Ebonyi, Cross Rivers, Abia, Anambra, Imo, Rivers, Beyelsa, Akwa e Ibom). In conseguenza di tutto ciò, nei primi anni settanta gli Igbo divennero uno dei gruppi etnici più poveri di tutta la Nigeria.
Sul cinquantesimo anniversario della guerra del Biafra, ho scritto un saggio pubblicato sul n. XXIII della rivista scientifica Africana dal titolo BIAFRA FIFTY YEARS ON. The heritage of conflict that shook Nigeria’s Federation. È possibile leggerlo su questo link
Si era tanto parlato della povertà in Biafra all’epoca, ma non conoscevo i fatti.
Grazie.
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Questa triste storia deve insegnare il popolo africa che malgrado le differenze tribali sono anzittuto africani da cui tutti gli atri popoli del mondo hanno origini
essi sono i progenitori dell’umanità