Dal 4 al 7 giugno, in occasione del decimo anniversario del Processo di Kimberley, nell’omonima cittadina sudafricana si è tenuta una riunione dei paesi che hanno aderito al protocollo entrato in vigore, dopo anni di negoziati, il primo gennaio 2003 per impedire il commercio illegale dei diamanti. Costituito sulla base di una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu, sin dall’inizio il sistema di certificazione ha dovuto garantire che le vendite di diamanti non finanziassero le violenze dei movimenti ribelli impegnati a combattere governi legittimi.
A tal fine, l’accordo sancisce che tutte le partite di diamanti grezzi esportate devono essere accompagnate da un certificato in cui si attesti che la spedizione non contiene “diamanti insanguinati”. Nell’ambito di questo protocollo, le autorità di ogni singolo Stato che ha aderito al sistema di certificazione sono responsabili di controllare l’operato delle ditte attive nel traffico di preziosi documentando provenienza, peso e valore di ciascuna pietra.
Tutti i paesi importatori sono obbligati ad accettare soltanto diamanti grezzi dotati dell’idonea certificazione e gli Stati che non applicano questo sistema vengono esclusi dal commercio. Ma il programma, voluto soprattutto in relazione al contrasto del finanziamento dei conflitti in Africa, non sempre ha funzionato. Lo dimostra la decisione del novembre 2011 di autorizzare le esportazioni dalle miniere della regione di Marange, nello Zimbabwe, dopo che, nell’aprile 2009, il World Diamond Council aveva vietato il commercio dei diamanti raccolti in queste miniere, in seguito alle continue segnalazioni di violazioni dei diritti umani dei minatori impegnati nell’estrazione.
Un divieto mai ratificato dal Kimberley Process e violato ripetutamente, come provano le testimonianze raccolte da varie organizzazioni non governative, tra cui Human Rights Watch (Hrw) che, nel giugno 2009, nel rapporto Diamonds in the Rough ha accusato l’esercito dello Zimbabwe della responsabilità di aver ucciso, nel novembre 2006, più di duecento persone per prendere possesso delle miniere di diamanti di Marange e di aver costretto dei bambini a lavorarci.
Per stilare il rapporto gli attivisti di Hrw hanno raccolto la testimonianza di più di cento persone, fra minatori, poliziotti, soldati, ufficiali e bambini, che descrivono dettagliamene gli abusi commessi dai soldati di Harare, per ottenere il controllo sulle miniere di Marange. I fatti contestati risalgono al periodo che va tra il giugno e il novembre 2006, quando furono scoperti i giacimenti diamantiferi e i gli abitanti dei villaggi incominciarono a spostarsi nella zona e a trovare diamanti poco sotto la superficie.
Per prendere possesso dell’area, gli elicotteri dell’esercito iniziarono a sparare contro i minatori, mentre le truppe di terra cacciavano gli abitanti dalla zona. Nel documento si fa riferimento a inoppugnabili prove di sepolture di massa e si spiega come i proventi della miniera siano finiti nelle tasche degli ufficiali fedeli al presidente Robert Mugabe.
Nel corso della riunione di Kimberley, la Repubblica Centrafricana, altro paese che lo scorso 10 maggio è finito sotto la lente di Human Rights Watch per “gravi violazioni” commesse dai ribelli della coalizione Séléka contro i civili (saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri e torture), ha annunciato una moratoria sullo sfruttamento e la vendita dei diamanti. La dichiarazione giunge a due settimane dalla sospensione del Centrafrica dal processo di Kimberley ed è arrivata direttamente dal leader dei Séléka (alleanza in lingua sango), Michel Djotodia, autoproclamatosi presidente della Repubblica Centrafricana dopo il colpo di Stato dello scorso 24 marzo.
Il mese scorso, durante un meeting del World Diamond Council svoltosi a Tel Aviv, gli operatori del settore hanno sospeso il Centrafrica “con effetto immediato”, poiché dalla destituzione del presidente François Bozizé le operazioni di controllo e monitoraggio dell’estrazione diamantifera non sono più possibili, in parte a causa dall’insicurezza diffusa sul territorio nazionale. Alcuni osservatori hanno inoltre avanzato l’ipotesi che operatori del settore diamantifero avrebbero finanziato la ribellione Séléka per togliere di scena Bozizé. La dichiarazione del nuovo presidente centrafricano non è dunque bastata ad evitare la riconferma della sospensione da Kimberley.
Come era prevedibile, considerato che l’ex colonia francese è tra i primi cinque produttori mondiali di diamanti, la decisione ha suscitato una dura reazione da parte di Bangui. Il ministro centrafricano delle Miniere e del Petrolio, Hervé Gotron Djono Habba, non ha esitato a definire il blocco delle esportazioni di diamanti come “ingiusto e penalizzante”. Secondo il ministro, la sanzione non farà altro che complicare la gestione dello Stato e della transizione da parte delle nuove autorità.
Eppure, anche prima del colpo di mano dello scorso marzo la situazione in Centrafrica non era molto diversa. Su come l’ex presidente Francois Bozizé gestisse il commercio dei preziosi è molto eloquente un rapporto dell’International Crisis Group del dicembre 2010. Il report spiega che fin da quando Bozizé, nel marzo 2003, è salito al potere ha sempre mantenuto uno stretto controllo del settore diamantifero per arricchire e potenziare il proprio gruppo etnico, ma ha fatto ben poco per ridurre la povertà che costringe i minatori a scavare in condizioni pericolose.
Nella riunione di Kimberley non è mancato chi ha posto l’accento sul fatto che ormai il problema non è solo il finanziamento dei gruppi ribelli, ma anche il rispetto dei diritti umani. Tra questi Claude Kabemba, direttore di Southern Africa Resource Watch (Sarw) che ha spiegato come l’obiettivo della sua e di tante altre ong sia di riformare il Processo di Kimberley. «Conclusa la maggior parte dei conflitti armati legati ai diamanti – sottolinea Kabemba – il Processo di Kimberley continuerà ad avere un significato solo se potrà monitorare l’intera catena produttiva dei diamanti e verificare se le pietre preziose stiano alimentando violazioni dei diritti umani o nuovi conflitti».
Di sicuro lo schema di Kimberley ha dei punti deboli, primo tra tutti che si applica solo ai diamanti grezzi, non a quelli tagliati e usati in gioielleria. Fattore che rende ai trafficanti relativamente semplice far entrare i diamanti già tagliati sul mercato, poiché dal momento in cui la pietra è tagliata diventa impossibile ricostruirne con certezza la provenienza. Un’altra carenza è rappresentata dal fatto che il sistema di certificazione si applica a lotti di diamanti, non a singole pietre.
Anche se è vero che gli Stati, oltre a garantire che la commercializzazione avvenga tramite speciali contenitori sigillati e a prova di manomissione, sono obbligati a raccogliere e scambiare dati statistici sulla produzione dei propri diamanti e ad utilizzare i formulari doganali conformi approvati dal Processo di Kimberley. Tuttavia è ugualmente abbastanza semplice immettere diamanti di provenienza illecita nei lotti .