In Sudafrica, lo chiamano national flower, si tratta del sacchetto di plastica usa e getta disseminato quasi ovunque nelle strade, nei terreni, nei fiumi, nei campi e addirittura sugli alberi della nazione Arcobaleno. Tutto questo, nonostante nel maggio 2003, l’esecutivo di Pretoria abbia imposto un severo divieto sull’utilizzo di questo prodotto altamente inquinante. Un utilizzo ampio e indiscriminato, che in molte nazioni africane ha causato il blocco dei canali di scolo provocando anche gravi inondazioni.
Così, da più di un decennio, l’Africa è in prima linea nell’adozione di misure restrittive per far sparire dalla circolazione il sacchetto di plastica, reo di uccidere il bestiame e contaminare il suolo, l’aria e l’acqua. Una ventina di paesi del continente l’hanno vietato senza mezzi termini, come il Ruanda, l’Uganda, il Gabon e il Kenya, introducendo misure coercitive come l’arresto per chiunque lo distribuisca gratuitamente o tassandolo come se fosse un bene di lusso.
Il Ruanda è stato uno dei primi Stati africani che ha reso illegale lo shopper di plastica. E da quando, nel 2005, ne ha imposto il divieto l’ha preso molto sul serio. Per le strade della capitale Kigali è tutto perfettamente pulito grazie ad una squadra speciale del ministero dell’Ambiente che, in coordinamento con la polizia locale, esegue periodici controlli nei centri commerciali e persegue senza sosta i venditori abusivi di sacchetti che hanno dato vita a un fiorente mercato nero. Mentre alle frontiere, i doganieri ruandesi eseguono minuziosi controlli per evitare l’ingresso nel paese del prodotto proibito.
Col passare del tempo sempre più governi africani si sono uniti a questa crociata adottando analoghe misure restrittive. Tra questi, Etiopia, Tanzania, Marocco, Botswana, Lesotho, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Ghana, Togo, Repubblica del Congo ed Eritrea che hanno vietato la circolazione dei sacchetti più sottili, vale a dire quelli con uno spessore inferiore a trenta micron (un micron è un millesimo di millimetro) e quindi non riutilizzabili.
Il fronte africano contro il sacchetto di plastica è in rapida crescita come dimostrano i divieti entrati in vigore dal primo gennaio scorso in Mauritania e Mali, mentre Burkina Faso, Algeria e Costa d’Avorio hanno annunciato l’imminente adozione di provvedimenti restrittivi in merito. Tuttavia, per ora gli ultimi due paesi che hanno vietato l’uso dei famigerati sacchetti non sono riusciti a replicare il successo ruandese, almeno per quanto riguarda la pulizia delle strade.
Per esempio, a Bamako, capitale del Mali, nonostante la recente imposizione del divieto, la plastica è onnipresente anche nel centro della città, dove a poca distanza dalla sede della Banca africana di sviluppo e dal lussuoso hotel de l’Amitié, affiorano montagne di spazzatura e detriti.
Un’analoga situazione si registra anche a Nouakchott, capitale della Mauritania, dove nel 2011, uno studio ha scoperto la presenza di sacchetti di plastica nello stomaco dell’80% delle mucche macellate in città. Lo stesso succede anche a molte pecore e cammelli che finiscono per morire di fame, perché il polietilene produce un rivestimento all’interno dell’intestino che impedisce ai poveri animali di assorbire le sostanze nutritive del cibo con cui si alimentano. Un altro problema, non di poco conto, che interessa la capitale mauritana è l’impossibilità di riciclare i sacchetti più sottili, che finiscono negli inceneritori generando fumi tossici dannosi per la salute dei suoi abitanti.
La campagna africana contro la plastica è stata anche ostacolata dalla prevedibile resistenza delle aziende di produzione e di trasformazione, oltre che dalla mancanza di alternative valide e a buon mercato. Infatti, i sacchetti biodegradabili molto più morbidi e abbastanza resistenti, costano il doppio rispetto ai precedenti e si lacerano facilmente a contatto con angoli o spigoli delle confezioni. Mentre le borse riutilizzabili in cotone, carta di riso, tela, tessuto non tessuto, polipropilene, molto diffuse anche nel nostro Paese, hanno un costo proibitivo per la maggior parte dei consumatori africani.
In Italia l’abolizione dei sacchetti di plastica non biodegradabili, in conformità con la normativa europea, è entrata in vigore all’inizio del 2011, suscitando le proteste delle aziende di prodotti plastici e l’allarme delle associazioni ambientaliste costrette a dover vigilare su coloro che hanno provato a lucrare anche su questo provvedimento.
Sicuramente, il nostro ecosistema ne ha tratto notevoli benefici, visto che gli italiani erano tra i massimi utilizzatori in Europa di buste di plastica, con un consumo medio annuale di trecento sacchetti a testa: un quarto dei cento miliardi di pezzi consumati in Europa.
Pingback: Sei macchine da cucire per le future sarte Masaai | AfroFocus