«Le milizie anti-balaka stanno portando avanti attacchi violenti e indiscriminati contro la comunità musulmana, col risultato di un esodo di proporzioni storiche». A lanciare l’allarme su quanto sta accadendo nella Repubblica Centrafricana è Joanne Mariner, direttrice del programma per i diritti umani dell’Hunter College e alta consulente di Amnesty International per le aree di crisi, che mercoledì scorso, in occasione della presentazione di un rapporto, ha spiegato le modalità delle violenze in atto nel paese africano.
L’Ong, impegnata nella difesa dei diritti umani, sottolinea che ciò che sta accadendo sembra ormai sempre più delineare una vera e propria pulizia etnica e critica la tiepida risposta della comunità internazionale alla crisi in corso da oltre un anno. Il rapporto fa anche notare come i peacekeeper dispiegati nel paese siano stati riluttanti a contrastare le milizie di autodifesa anti-balaka, definite cristiane e appoggiate dai lealisti del deposto capo di Stato, François Bozizé, oltre che a proteggere la comunità musulmana.
Nelle ultime settimane, l’organizzazione ha raccolto più di un centinaio di testimonianze dirette di attacchi su larga scala compiuti dai miliziani anti-balaka contro la popolazione civile musulmana nelle città di Bouali Boyali, Boussembele, Bossemptele e Baoro, località in cui non sono stati dispiegati i caschi blu.
L’episodio più grave, documentato da Amnesty, ha avuto luogo il 18 gennaio a Bossemptele dove sono rimasti uccisi almeno cento musulmani, tra cui donne, anziani e un imam settantenne. Per scampare ai ripetuti attacchi, l’intera popolazione musulmana di numerosi villaggi e città ha lasciato le proprie abitazioni mentre i pochi rimasti hanno cercato riparo in chiese e moschee. Un contesto che secondo i canoni del diritto penale internazionale potrebbe configurare il reato di crimini contro l’umanità contro i civili musulmani del Centrafrica.
Amnesty ricorda come le preoccupazioni sulla natura settaria della violenza nella Repubblica centrafricana nel dicembre 2013 avevano spinto il Consiglio di sicurezza ad autorizzare l’invio dei peacekeeper nel paese. La forza di peacekeeping composta da 1.600 soldati francesi dell’operazione Sangaris (dal nome di una farfalla rossa africana) e da 5.500 soldati della Missione internazionale di supporto alla Repubblica centrafricana (Misca), che opera sotto l’egida dell’Unione africana, è stata posta a protezione di Bangui e di alcune città a nord e a sud-ovest della capitale. Ma persino qui, nel quartiere musulmano PK5, migliaia di civili stanno continuando a lasciare le loro abitazioni.
La crisi in atto non è da misurare solo in rapporto al deteriorarsi della situazione umanitaria all’interno del paese, ma soprattutto in base al rischio che pone a livello regionale. La diffusione della violenza e la palese incapacità sia di Bangui sia della forza di peacekeeping di porre un freno all’azione dei gruppi armati, evidenziano il rischio di una degenerazione incontrollata della situazione politica e di sicurezza nella Repubblica Centrafricana.
Uno scenario di questo tipo avrebbe rilevanti ripercussioni sull’intera regione, aprendo la possibilità di una diffusione dell’instabilità centrafricana ai paesi limitrofi. Mentre un’ulteriore e non meno grave minaccia è posta dalla progressiva ridefinizione del conflitto su base interconfessionale. La Repubblica Centrafricana, pur caratterizzata da fasi cicliche di violenza e instabilità, non è mai stata teatro di particolari tensioni tra le diverse comunità religiose presenti al suo interno. Per di più il movimento Séleka, pur essendo in massima parte espressione delle regioni musulmane del paese, non ha una connotazione dichiaratamente confessionale.
Tuttavia, qualora il fattore religioso dovesse diventare predominante all’interno dell’attuale crisi, alcune componenti di Séleka potrebbero adottare una linea più vicina all’integralismo islamico e di conseguenza si aprirebbe la strada al rischio di infiltrazioni di organizzazioni di matrice qaedista. Senza contare, che alcune delle principali compagini jihadiste attive nella regione e legate alle reti qaediste in Sudan, potrebbero ampliare le proprie attività al territorio centrafricano.
Sebbene la sua cronica instabilità ed estrema povertà abbiano storicamente relegato la Repubblica Centrafricana ad un ruolo marginale negli equilibri politici della regione, il paese costituisce un nodo fondamentale per la sicurezza dell’area; soprattutto per la sua posizione geografica nel cuore dell’Africa centrale, a uguale distanza dal Mediterraneo e dal Capo di Buona Speranza. Di conseguenza, una sua eventuale disgregazione politica si configurerebbe come una minaccia diretta per tutti gli Stati confinanti, con elevate probabilità di una diffusione dell’instabilità a livello regionale.
non ho lacrime