La comunicazione di molte Ong vive di stereotipi dell’umanitario. Alcuni esempi di creatività e ironia possono risultare efficaci contro questa “pornografia della povertà”. Difficile pensare alla comunicazione senza la creatività. Quella creatività che permette di innovare, di non ripetere, di rompere gli stereotipi, di produrre cambiamenti, di muovere e spingere all’azione. Questo si scrive, si studia, si ricorda e s’insegna. E tutto ciò vale ovviamente anche per il fund raising.
Però basta raccogliere casualmente una decina di lettere di “Raccolta fondi” ricevute da uno stesso indirizzo da parte di organizzazioni non profit per ritrovarsi un panorama incredibilmente omologato. Si trovano decine di foto simili, di appelli quasi indistinguibili. La comunicazione della raccolta fondi del non profit pare non riesca a risultare creativa, non riesce a superare alcuni cliché.
Superare l’uso, senza dubbio efficace, di toni emotivi, della sofferenza o, sempre più, dell’appeal dell’immagine di un volto di bambino, e del suo contraltare: il “salvatore bianco”. Tutte figure del paternalismo verso un Sud povero da salvare, di problemi di minori e minoranza solo da aiutare.
E pare funzionare. Ottiene donazioni. Come funziona larga parte della comunicazione pubblicitaria “di massa”. La questione a questo punto però è: per quanto tempo? A quale costo? Il costo è quello di lasciare simbolicamente, culturalmente, e poi di conseguenze nelle azioni e nelle politiche interi mondi, interi gruppi di persone in una condizione di inferiorità, di minorità. Sempre e solo bisognose di aiuto.
E poi, per quanto tempo una comunicazione così “massiva” e aggressiva funzionerà? Cosa succederà quando tutte le ong la useranno? Quando tutte le nostre cassette delle lettere saranno invase da lettere simili, da simili fotografie ed emozioni?
La creatività serve anche ad evitare questi rischi. Un intervento intelligente, la comunicazione della società civile, potrebbe e dovrebbe fornire alternative a questa corsa all’identico, al sicuro. E le alternative ci sono. E sono anche piacevoli, direi spassose.
Ecco un divertente esempio che viene dal nord Europa, una campagna realizzata da una ong norvegese. Lo spot mostra un gruppo di ragazzi africani che lanciano un’idea. Breezy Vee, il portavoce della campagna Radi-Aid, con collaudata posa da divo rap, lancia l’appello:
Collecting radiators –
Shipping them over there –
Spread some warmth –
Spread some smiles –
Say yes to Radi-Aid
[ Raccogliamo termosifoni | Li Spediamo laggiù | Diffondiamo un po ‘di calore | Diffondiamo qualche sorriso | Di’ di sì Radi-Aid ]
E già. E’ il caldo e assolato continente nero a dover dare una mano, aiutare i la popolazione del paese scandinavo a resistere alle intemperie. Facile e godibile rovesciamento ironico.
Tutti gli stereotipi dell’umanitario sono ribaltati, dalla chiamata all’azione alla tristezza delle immagini pietistiche, dall’immaginario delle jam session alla BandAid o UsaforAfrica, all’idea di un beneficiario passivo e, per forza, triste (in assenza di intervento).
Contro-narrazione confermata da un altro godibile spot: il protagonista è questa volta il giovane e disilluso attore nero testimonial delle campagne per la raccolta fondi.
La stessa ong ha assegnato un premio per segnalare le campagne più stereotipate, ma anche quelle più creative e originali.
Siamo proprio nell’era della parodia, del pastiche. È ora di cominciare. Anche tu, dona un radiatore!
* ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione de La Sapienza di Roma, dove insegna Processi culturali e comunicativi applicati alla scienza e alla salute e Comunicazione dei diritti e della cittadinanza attiva
di Marco Binotto (comune-info.net)