Esattamente un anno fa esplodeva la crisi in Sud Sudan. Tutto ebbe infatti inizio il 15 dicembre 2013 nella capitale Juba, dove si registrarono i primi scontri tra reparti militari, rispettivamente fedeli al presidente Salva Kiir Mayardit e all’ex vice presidente, Riek Machar Teny. Il conflitto si è poi esteso a diverse aree del paese, assumendo una polarizzazione etnica che ha coinvolto le due principali etnie, i dinka (ai quali appartiene il presidente Kiir) e i nuer (l’etnia di Riek Machar). Di fatto, sin dai primi anni di governo i dinka hanno gradualmente imposto il proprio controllo sulle istituzioni.
Un controllo che gli ha permesso di monopolizzare i proventi dell’industria petrolifera e gli aiuti umanitari provenienti dalle organizzazioni internazionali. Per questo, Riek Machar, ingegnere meccanico per formazione, ha coltivato a lungo il desiderio di spodestare Kiir, denunciandone il totale fallimento nel frenare il tribalismo sistemico e la corruzione nel paese, nell’ideare piani nazionali politici ed economici efficaci e nel progettare programmi politici per rinforzare la nuova identità nazionale.
In questo modo, ha progressivamente compattato attorno alla sua figura i nuer e gli altri membri delle etnie minoritarie opposte al regime di Juba, reclutando attivisti politici, milizie tribali, formazioni paramilitari e interi reparti dell’Esercito.
Ma oltre alle rivalità settarie, dietro allo scoppio del conflitto c’è anche il tornaconto di mettere mano alle grandi ricchezze del Sudan meridionale, soprattutto al petrolio, particolarmente abbondante negli Stati federali del Nord.
E’ proprio negli aspri scontri che si sono registrati in quest’area che si profilano gli interessi economici celati dietro ai settarismi tribali, che costituiscono solo una delle motivazioni utili a decifrare quanto sta avvenendo in una nazione che dipende per il 98% dagli introiti petroliferi e, nonostante le sue ricchezze, è una delle più povere del mondo.
Secondo stime dell’International Crisis Group, la crisi ha provocato almeno 50mila vittime, per lo più civili, un numero che secondo altri osservatori andrebbe raddoppiato, mentre il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon parla di crisi “tragica e inaccettabile” affermando che “decine di migliaia di sud sudanesi sono stati uccisi”, anche se né Onu, né il governo di Juba hanno diffuso dati ufficiali.
Oltre alle vittime e ai feriti, la guerra ha provocato l’esodo di due milioni di persone e la paralisi economica della giovane nazione, al punto che su dodici milioni di abitanti, circa la metà dipende per la propria sopravvivenza dagli aiuti internazionali.
Per dare un nome alle vittime, alcuni attivisti e gruppi religiosi hanno dato origine al progetto “Naming Those We Lost” (dai un nome a chi hai perso) che finora ha identificato 572 morti: i primi sono quelli di un bambino di 14 mesi e di una signora di 105 anni.
Nella prima settimana del conflitto, le vittime furono migliaia solo a Juba, prima che gli scontri dilagassero in altre parti del paese. Oggi saranno ricordate in una veglia nella capitale e nei paesi vicini, dove centinaia di migliaia di sud sudanesi sono fuggiti. L’Unicef ha denunciato infine il reclutamento, da parte delle varie fazioni, di 12mila bambini soldato, mentre la crisi a un anno dal suo inizio non è ancora risolta, nonostante diversi tentativi di raggiungere un accordo di pace.