Negli ultimi dieci anni l’Africa è stata protagonista della crescita più rapida tra tutti i continenti, con un tasso medio annuo di oltre il 5%, dovuta in parte a una migliore governance, alle riforme economiche e ai programmi di medio termine per la riduzione del debito, attentamente monitorati dai donor internazionali. Nello stesso periodo, per la prima volta nove governi africani sono riusciti a collocare i loro titoli di stato sulle due principali piazze finanziarie di Londra e di New York.
Un altro segnale di fiducia giunge dal fatto che, sebbene la crescita economica non sia avvenuta in modo omogeneo e il continente africano soffre di forte sperequazione nei livelli di reddito pro capite, la percentuale di africani che vivono in povertà finalmente registra una tendenza al ribasso.
Quello che in questa decade ha sostenuto in particolar modo la brillante performance è stato l’aumento dei prezzi delle materie prime, che ha portato ingenti flussi di denaro nelle economie dei paesi africani, rendendo la loro espansione quasi inevitabile.
Del resto, per un continente che custodisce un terzo delle riserve minerarie del pianeta, un decimo del petrolio e produce due terzi dei diamanti, sembra normale che quando i prezzi delle risorse naturali si mantengono elevati la crescita sia sostenuta. Accade, invece, che quando si registrano flessioni in questi settori, l’economia africana rallenta il suo trend di sviluppo.
Tant’è vero, che nel 2009, quando la turbolenza sui mercati determinò il calo delle commodities, il Pil di molti paesi africani registrò una netta flessione; mentre nel 1998-99, durante una caduta del prezzo del petrolio, la naira nigeriana arrivò a perdere l’80% del suo valore.
Il quadro economico attuale, che vede il prezzo del petrolio dimezzato in appena sei mesi e annota un sensibile calo delle quotazioni di molti metalli come il rame e il ferro, potrebbe dunque favorire il ripetersi di quanto accaduto nel 2009, quando la crescita economica africana fu minata dal crollo delle commodities.
Segnali negativi giungono dal fatto che in almeno dieci economie africane il calo dei prezzi delle materie prime ha influenzato la svalutazione delle valute locali, che nel 2014 si sono deprezzate di oltre il 10%. Ma nel complesso non si sono registrate flessioni disastrose. Questo suggerisce che gli investitori internazionali non vedono più la diminuzione dei prezzi delle materie prime come una catastrofe per l’Africa.
La divisa del Ghana, il cedi, è stata la valuta africana che nel 2014 ha performato in maniera peggiore, perdendo oltre il 26% rispetto al dollaro. Ma questo vistoso cedimento non è dovuto all’impatto della contrazione al ribasso dei prezzi delle commodities, poiché, per gli standard continentali, il Ghana è non particolarmente dipendente dalle materie prime.
In realtà, il paese africano sconta una cattiva gestione della politiche fiscali accompagnata da un deficit di bilancio, che negli ultimi anni ne ha ridotto di molto la liquidità (nel 2013 il deficit ha influito sul 10% del Pil).
Il Ceo della Ford in Sudafrica, Jeff Nemeth, reputa che uno dei motivi per cui le economie africane stanno dimostrando di essere in grado di reggere il calo delle materie prime, può essere riconducibile al fatto che l’Africa è pronta a superare la sua impostazione di mercato guidato solo dai consumi e dalle materie prime.
Senza dimenticare che solo un quarto dei paesi africani produce petrolio, mentre secondo le ultime stime della Banca africana di sviluppo (AfDB), alcuni degli Stati più poveri del continente, come la Liberia e la Sierra Leone, spendono il 15% del loro reddito per le importazioni di petrolio. E per questi paesi, la caduta del prezzo del greggio rappresenta un chiaro vantaggio.
Secondo Nemeth, per proseguire in un processo di diversificazione che coinvolga i consumatori africani occorre un mercato comune ed economie di scala. Il top manager sudafricano è convinto che per diversificare l’economia del continente sia necessaria una maggiore integrazione regionale e uno sviluppo del commercio intra-africano, che a sua volta stimolerà sulla creazione di ricchezza in tutti i settori esistenti e in tutti i paesi.
Uno studio del 2011, intitolato Economic diversification in Africa, già evidenziava come l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di materie prime o da singoli settori dell’economia rappresentasse un ostacolo decisivo allo sviluppo del continente.
Il rapporto, frutto della collaborazione dell’Ufficio del Consigliere speciale sull’Africa presso le Nazioni Unite (Osaa), del Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad) e dell’Ocse di Parigi, spiega come molti paesi africani siano “vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime, alle oscillazioni della domanda e a eventi meteorologici estremi come siccità o inondazioni”. Conseguenze inevitabili se l’economia di una nazione è basata su un singolo prodotto, come il cotone, il rame o il petrolio; evitabili invece se viene diversificata, provando a gestirne i processi di trasformazione.
E’ anche singolare osservare che, nonostante le ingenti risorse di cui dispone il continente, dove vive il 14% della popolazione mondiale, i prodotti africani costituiscono appena il 2% del commercio mondiale, una percentuale quasi irrisoria dovuta soprattutto al fatto che le sue materie prime vengono cedute a prezzi bassi mentre i macchinari per l’industria, l’edilizia e le telecomunicazioni, vengono venduti a prezzi esorbitanti nonostante i componenti di fabbricazione provengano, quasi tutti, dal continente africano.
Secondo una recente analisi della Banca mondiale, l’Africa per incrementare la sua quota di commercio mondiale ha bisogno di diversificare le sue strutture produttive e di creare nuove attività in settori sottosviluppati, ma si tratta di obiettivi importanti che richiedono un notevole sforzo congiunto da parte dei governi africani, del settore privato e della comunità internazionale.