Dopo tredici anni, il quasi 91nenne dittatore dello Zimbabwe Robert Gabriel Mugabe potrà tornare a viaggiare in Europa. Questo uno degli effetti della nomina alla presidenza di turno dell’Unione africana (Ua) che, in virtù della regola che impone la turnazione del presidente, il 30 gennaio ha deciso la nuova designazione al vertice dell’organizzazione. Una scelta obbligata dal fatto che lo Zimbabwe era il candidato per l’Africa meridionale, cui spettava la guida dell’Ua dopo la fine del mandato dell’Africa settentrionale, esercitato dal presidente mauritano Mohamed Ould Abdel Azziz.
Pur avendo cominciato a normalizzare le sue relazioni con Harare nel 2013, Bruxelles aveva mantenuto il nome di Mugabe nella lista nera delle “persone non grate” alle quali è negato il visto per viaggiare nei paesi europei. Ma dopo la nomina al vertice dell’organizzazione internazionale comprendente tutti gli Stati africani ad eccezione del Marocco, le cose cambiano e quando il dittatore viaggerà nelle vesti di presidente dell’Unione Africana, il bando dovrà essere revocato.
Nel marzo 2002, l’Unione europea aveva imposto pesanti sanzioni allo Zimbabwe per protestare contro la violenza politica e le violazioni dei diritti umani commessi dal regime di Harare. Le misure coercitive scattarono in seguito all’approvazione da parte del Parlamento locale di una legge che limitava la libertà dei media e alla contestatissima rielezione di Mugabe, in uno scrutinio criticato dall’opposizione e dagli osservatori internazionali.
In effetti, la nomina dell’anziano leader dello Zimbabwe è molto discutibile e lascia piuttosto sgomenti in considerazione del suo passato politico. Lo conferma Piers Pigou, project director per l’Africa meridionale di International Crisis Group, che ritiene la nomina di Mugabe tutt’altro che simbolica e foriera di un segnale negativo di solidarietà africana con i leader che hanno mal governato i loro paesi. E lo ribadisce Obert Gutu, portavoce del partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), secondo cui Mugabe ha cestinato la democrazia nello Zimbabwe e il suo governo ne ha distrutto l’economia.
Tuttavia, la designazione non giunge inaspettata, poiché Mugabe era già stato identificato da tempo come il candidato dell’Africa australe alla presidenza temporanea dell’Ua essendo anche l’attuale presidente della Sadc (la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale), il più importante organismo della regione. Né va dimenticato che la carica che il leader dello Zimbabwe è stato chiamato a ricoprire ha pochi poteri sostanziali rispetto a quella, di più lunga durata, di presidente della Commissione dell’Ua, oggi occupata dalla sudafricana Nkosazana Dlamini-Zuma.
La figura del dittatore africano, soprattutto in Occidente, resta comunque imbarazzante e la sua storia politica non lascia adito a fraintendimenti. Mugabe, convinto cattolico, è stato il leader della guerriglia nell’ex Rhodesia del Sud che lottava contro l’apartheid del governo di Ian Smith. Proprio il suo ruolo nella lotta armata, lo fece divenire un eroe agli occhi dei suoi compatrioti e degli africani in generale.
Ma salito al potere ha rivelato la sua incapacità politica e nei 35 anni trascorsi alla guida del paese, prima come primo ministro e poi come presidente, ha messo in ginocchio lo Zimbabwe portandolo ai più elevati tassi d’inflazione al mondo e a svalutazioni monetarie senza precedenti.
Nel febbraio del 2000, nonostante il risultato sfavorevole di un referendum costituzionale che aveva indetto per rimanere insieme ai suoi fedelissimi alla guida del paese, decise di ripresentarsi il mese dopo alle elezioni, che vinse di stretta misura con l’accusa di pesanti brogli. Dopo la sua rielezione, emanò una serie di improvvide riforme sociali, tra cui quella agraria che ingiunse a 2900 white farmer (i proprietari terrieri bianchi) di lasciare le proprie aziende agricole per redistribuirle in seno al clan dei suoi familiari.
L’esproprio, però, non sortì alcun effetto positivo poiché il governo non fornì aiuti sufficienti agli agricoltori indigeneous che non furono in grado di mantenere l’elevata produzione di quello che un tempo era considerato il granaio dell’Africa. Questo innescò la destrutturazione dell’ossatura economica dello Zimbabwe generando una vera e propria rovina sociale.
Dopo questa sconsiderata decisione, lo Stato africano è precipitato in una spirale di crisi che ha prodotto un’iperinflazione che nel febbraio 2008 arrivò allo stratosferico livello del 164.900,3% su base annua. E a nulla è valsa la decisione presa dal governo nell’aprile 2009 di smettere di stampare dollari zimbabwani nel tentativo di stabilizzare l’economia, adottando come valute di riferimento il rand sudafricano e il dollaro statunitense. Fino ad arrivare al 30 gennaio 2013, quando, dopo aver pagato i salari dei funzionari governativi, le finanze del governo giunsero alla paralisi con soli 217 dollari nelle casse statali.
Il tracollo economico dell’ex colonia britannica ha prodotto il degrado dei più elementari servizi sociali e ha investito tutti i settori economici con forti ripercussioni sullo sviluppo. Il tutto aggravato da una sfortunata successione di siccità, inondazioni e dalla carenza idrica che ha costretto più volte la municipalità di Harare a razionare la fornitura dell’acqua, soprattutto durante l’aridissima stagione invernale, che dura otto mesi e prosciuga molte riserve, rendendo difficoltosa la coltivazione di beni alimentari. La scarsità idrica ha portato anche alla diffusione tra il 2008 e il 2009 della peggior epidemia di colera che abbia colpito l’Africa, causando la morte di oltre 4mila persone.
Lo scenario è ulteriormente offuscato dalla costante denuncia delle politiche repressive di Mugabe da parte delle organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani. L’ultimo rapporto sulla situazione nello Zimbabwe è stato redatto da Human Rights Watch (HRW) che ha criticato aspramente Mugabe per aver continuato a “violare i diritti umani anche nel 2014 senza tener conto delle garanzie previste nella nuova Costituzione del paese africano”. L’Ong londinese sottolinea anche come il governo di Harare, malgrado siano trascorsi più di sei anni dalle violenze di matrice politica delle elezioni del 2008, non sia riuscito ancora a rendere giustizia alle vittime.
La parabola dello Zimbabwe è stata raccontata da Peter Godwin, rhodesiano di nascita, giornalista, scrittore, membro del Council on Foreign Relations e presidente del PEN American Center, che nelle 349 pagine del suo libro The Fear: Robert Mugabe and the Martyrdom of Zimbabwe, racconta la repressione, l’avidità e gli affari spregiudicati che da troppo tempo dominano la nazione africana, ma testimonia anche la resistenza civile e il coraggio del popolo zimbabwiano.