I 5 punti della nuova strategia nella lotta all’Hiv in Africa

Le ultime linee guida dell’Oms hanno ampliato il target di copertura delle terapie antiretrovirali, mentre i sistemi sanitari africani, già posti notevolmente sotto pressione dai programmi terapeutici per l’Hiv, devono affrontare anche la presa in carico di persone asintomatiche. Per far fronte a queste necessità, l’organizzazione non governativa indipendente Medici senza frontiere (Msf) elabora nuove proposte per garantire il raggiungimento delle popolazioni target e l’aderenza alle terapie.

Nel corso dell’ultimo decennio, con la scoperta di nuovi farmaci antiretrovirali (ARV) e del possibile ruolo della terapia ARV (ART) nella prevenzione dell’infezione da HIV, e le conseguenti modifiche nelle linee guida internazionali per il trattamento dell’infezione, in Africa il numero di persone potenzialmente eleggibili per l’avvio di una terapia ARV è aumentato in modo consistente.

Se nel 2002 si raccomandava di iniziare la terapia con farmaci ARV con una conta di linfociti CD4 inferiore a 200/mm3, dunque con uno stato già avanzato d’infezione, in pazienti solitamente già sintomatici, progressivamente si è innalzata la soglia a 350 CD4/mm3, fino ad arrivare alle ultime linee guida per il trattamento dell’HIV dell’OMS, pubblicate a giugno 2013, dove si raccomanda l’inizio dell’ART in caso di conta cellulare dei linfociti CD4 inferiore a 500/mm3[1].

L’ampliamento della popolazione target per l’inizio della terapia ARV, che include persone in una fase ancora iniziale d’infezione da HIV, comporta la necessità di sviluppare modelli di assistenza alternativi a quelli basati sulle strutture sanitarie, già poste sufficientemente sotto pressione dai bisogni di cura dei pazienti sintomatici o con AIDS conclamato.

Modelli che tengano anche conto delle difficoltà esistenti nel raggiungere le persone asintomatiche e supportarle nell’aderenza ai regimi terapeutici. In molti paesi africani, infatti, i tassi di ritenzione in trattamento stanno peggiorando. In particolare sono gli uomini a iniziare più tardi le terapie, spesso in uno stadio già conclamato d’infezione, e a rimanere più difficilmente complianti con il programma terapeutico.

In Sudafrica, il paese con il maggior numero di persone sieropositive nel mondo (6,2 milioni alla fine del 2013), nonostante 2,4 milioni di adulti e 156.000 bambini siano sotto ART, il 25% dei pazienti è perso al follow-up dopo un anno e in un altro 25% di pazienti la terapia non conduce a soppressione virale.

Un recente approfondimento del New England Journal of Medicine (NEJM) sull’argomento[2]sottolinea come il trattamento precoce dell’infezione da HIV, che potrebbe rappresentare un’opportunità per prevenire la diffusione del virus e l’empowerment delle persone che vivono con l’HIV, rischia di tradursi in una pesante medicalizzazione dell’intervento.

Tom Elman, dell’Unità Medica del Sudafrica di Msf, racconta sul NEJM che nella maggior parte dei paesi africani iniziare una terapia ARV per un individuo sano significa ogni mese camminare a lungo o affrontare costi di trasporto notevoli per raggiungere la clinica per HIV, e attendere per ore prima di essere ricevuti da personale sanitario sovraccarico di lavoro e spesso stigmatizzante nei confronti di persone che a loro avviso non necessitano di ART.

Inoltre, data l’assenza di sintomi, tali individui non percepiscono a breve termine i vantaggi del trattamento precoce, e non sorprende, dunque, che la compliance e la ritenzione in terapia possano essere bassi.

La soluzione non è quella di escludere questi individui dall’accesso all’ART, ma di sviluppare un approccio alternativo per assistere le persone sane, centrato nella comunità (community based), diverso dai modelli classici di assistenza sanitaria dei programmi di ART.

Modelli di cura per le persone asintomatiche centrati nella comunità sono già implementati in Africa da MSF, ed hanno ottenuto anche il riconoscimento dell’OMS[3].

La nuova strategia in 5 punti chiave

Tom Elman sottolinea i 5 punti chiave di questo approccio:

  1. Come primo punto, si raccomanda di centrare le modalità di consegna dei farmaci ARV sul paziente, adottando strategie che richiedano poco tempo e siano possibilmente scollegate dalle visite mediche. Gruppi di ART, in cui una persona si fa carico di ritirare i farmaci e consegnarli a una comunità di persone sieropositive, e gruppi di aderenza alla terapia sono esempi di questo tipo di strategia. Questi ultimi, già implementati da Msf in diversi paesi, fra cui il Sudafrica, hanno il ruolo di promuovere l’apertura verso l’HIV e l’accettazione dello stato di sieropositività nella comunità, e di supportare una maggior aderenza ai programmi di screening e alle terapie[4].
  2. La seconda raccomandazione è sostituire la conta dei CD4 con la misurazione annuale della carica virale per il monitoraggio dell’andamento della terapia nei pazienti asintomatici e per valutare l’aderenza al trattamento, anche attraverso metodologie a basso costo come lo striscio di sangue periferico. Questo permetterebbe di discriminare con maggiore facilità i pazienti che necessitano assistenza sanitaria o un aggiustamento delle terapie da chi può, invece, continuare il trattamento a livello comunitario.
  3. Il responsabile di Msf suggerisce poi di estendere i meccanismi di monitoraggio e valutazione dei programmi anche al di fuori delle strutture sanitarie, includendo gli interventi attuati nelle comunità di persone sieropositive, per fornire un quadro più ampio dell’efficacia e dell’aderenza ai trattamenti.
  4. Il quarto punto chiave riguarda la necessità di garantire risorse finanziarie per le strutture comunitarie e per il personale coinvolto nella gestione dei gruppi di supporto per le persone sieropositive, per il test HIV e il collegamento con i percorsi di cura, e per le attività di monitoraggio dell’efficacia e dell’aderenza a tali percorsi. La preoccupazione sorge, in particolare, poiché uno dei principali donatori storici per i programmi di controllo dell’HIV, il PEPFAR (US Emergency Plan for AIDS Relief), sta ritirando i fondi dal Sudafrica, considerato ormai un paese a medio reddito, non tenendo conto però delle disuguaglianze interne al paese e ponendo delle difficoltà nella continuità di azioni intraprese nelle zone più svantaggiate.
  5. Infine, viene sottolineata l’importanza di mantenere vivo l’attivismo della società civile per sostenere la risposta all’HIV nelle comunità. Paradossalmente, il successo della terapia ARV ha, infatti, condotto a un declino nell’attivismo comunitario. I gruppi di attivisti che hanno giocato un ruolo fondamentale con i governi, i sistemi sanitari e la comunità internazionale per promuovere la risposta all’HIV sono silenziosi ormai da diverso tempo, e ricevono sempre meno finanziamenti.

Nonostante i successi raggiunti finora nella copertura della terapia ARV in Africa, non bisogna dunque abbassare la guardia rispetto alle sfide poste dall’ampliamento a popolazioni asintomatiche.

Un passaggio da un’assistenza basata esclusivamente su strutture sanitarie a un modello integrato con la comunità potrebbe trasformare il panorama dell’assistenza sanitaria in Africa, non limitandosi soltanto all’HIV ma anche al trattamento delle malattie croniche.

Ovviamente, affinché questo sia possibile, così come per far sì che gli ambiziosi obiettivi di copertura fissati da Unaids per il 2020 siano raggiunti (90-90-90: 90% delle persone con HIV a conoscenza del loro status, 90% delle persone che ne hanno bisogno ricevono ART, 90% di persone in trattamento con carica virale soppressa), la comunità internazionale, i policy makers e i sistemi sanitari sono chiamati a dare il loro contributo sia politico che finanziario.

Bibliografia

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