La Commissione elettorale della Tanzania ha deciso di rinviare sine die il referendum per l’approvazione della nuova Costituzione previsto per il 30 aprile, motivando che il posticipo è dovuto a problemi organizzativi ascrivibili ai ritardi verificatisi nella distribuzione delle carte digitali, che consentono agli aventi diritto al voto di registrarsi ed esprimere la loro preferenza. La proroga è stata accolta con riluttanza dai partiti di opposizione.
Gli stessi partiti hanno espresso la loro preoccupazione riguardo al fatto che il ritardo potrebbe anche influire sul regolare svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari, fissate per il prossimo mese di ottobre.
Oggetto di contestazione è stata anche la bozza di Carta fondamentale oggetto del referendum, per la quale i movimenti di opposizione hanno annunciato il boicottaggio. In diversi casi all’origine di questa protesta c’è la denuncia di una mancata riforma in senso federalista, legata ai rapporti tra la parte continentale del paese e l’arcipelago di Zanzibar.
Una questione che risale all’aprile 1964, quando, pochi mesi dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, l’isola a maggioranza musulmana venne trasformata in una regione semi-autonoma della Tanzania, sotto la guida di Julius Nyerere.
Uno status che ha permesso a Zanzibar di mantenere una contenuta capacità di autogestione per quanto riguarda l’amministrazione degli affari locali, che esercita attraverso una propria Camera dei rappresentanti composta da 192 deputati, lasciando però i grandi temi come la politica estera, la difesa nazionale, l’immigrazione e le politiche economiche sono sotto il diretto controllo del governo centrale.
Una struttura a due livelli concepita sia per garantire che Zanzibar non fosse completamente “sottomessa” da Dar es Salaam sia per tenere sotto controllo eventuali spinte indipendentiste, che hanno sempre caratterizzato la scena politica tanzaniana pur non essendosi mai manifestate in maniera tale da mettere in pericolo la sua integrità.
L’Unione tra Zanzibar e la terraferma ha così resistito più di cinquant’anni, fornendo quella stabilità politica tanto necessaria per fronteggiare la fragile congiuntura economica dell’isola. Tuttavia, durante questo lungo periodo il cammino politico dell’arcipelago è stato continuamente segnato da richieste di maggiore autonomia accompagnate da periodici appelli alla piena secessione dalla Tanzania.
Il rischio di scissione rimane dunque un problema critico, che il presidente Jakaya Kikwete intende definire grazie alla nuova Costituzione, il cui processo di elaborazione ha preso avvio nel gennaio 2011, accedendo fin dall’inizio un forte dibattito riguardo la configurazione politica dell’Unione.
Per porre fine all’annoso contenzioso tra le due province, il giudice ed ex primo ministro Joseph Warioba, presidente della Commissione per la revisione costituzionale, aveva proposto una nuova Carta fondamentale nella quale era previsto un sistema di governo federale e il ripristino dei governi autonomi del Tanganica e dello Zanzibar.
Allo stesso modo, prima di abbandonare nell’aprile dello scorso anno i lavori dell’Assemblea costituente, i tre principali partiti di opposizione e gruppi della società civile avevano strenuamente cercato di sostenere il progetto di revisione di Warioba e di limitare i poteri presidenziali.
Kikwete, però, lo scorso ottobre, con l’appoggio dal parlamento ha approvato un progetto costituzionale in cui il governo federale della Tanzania è formato dalle due entità semi-autonome e mantiene il potere legislativo sui due paesi confederati.
La nuova costituzione dovrebbe sostituire quella adesso in vigore approvata nel marzo del 1977, quando il paese era sotto il dominio del partito unico di governo Chama Cha Mapinduzi (CCM, partito della rivoluzione in lingua kiswahili), che dopo la sua fondazione approvò in tempi brevissimi la Quarta Costituzione, che nei suoi contenuti riproponeva i tre principi generali delle precedenti: presidenzialismo forte, doppio sistema di governo e monopartitismo.
L’approvazione del progetto costituzionale ha suscitato anche le critiche dei vescovi locali, che hanno esortato i fedeli cristiani a boicottare il referendum, motivando il loro invito con il fatto che la bozza definitiva non è stata scritta da un’Assemblea inclusiva. Tuttavia, dietro la richiesta dei più alti rappresentanti ecclesiastici locali ci sono le polemiche sull’istituzione in tutto il territorio nazionale delle corti islamiche, già operanti nell’arcipelago di Zanzibar, dove la maggioranza della popolazione è musulmana.
L’emendamento, già inserito nel testo della nuova Carta, ha suscitato forti perplessità nella Chiesa cattolica, inducendo i prelati a replicare che le corti religiose non dovrebbero usufruire della protezione statale in una nazione laica come la Tanzania
C’è comunque da sottolineare che la stampa locale ha riportato che la Chiesa è stata misurata nella sua critica, spiegando come la Conferenza episcopale della Tanzania (TEC) abbia semplicemente dichiarato che alcuni articoli del progetto di Costituzione potrebbero portare la società “nella direzione sbagliata”.
La nazione africana, in effetti, non è esente da rischi di deriva confessionale, come testimonia la crescita negli ultimi anni dell’Associazione per la mobilitazione e propagazione islamica (Uamsho, che in kiswahili significa “Risveglio”), un gruppo separatista di ispirazione islamica che raggruppa trenta diverse organizzazioni religiose per salvaguardare i costumi dell’islam sunnita.
Il movimento, che chiede apertamente la piena indipendenza dell’arcipelago semi-autonomo dalla Tanzania, è stato istituito nel 2001 come organizzazione non governativa islamica, ma nel corso del tempo si è progressivamente radicalizzato nella dottrina e nell’azione. Lo dimostrano i numerosi attentati a sfondo politico-religioso, durante i quali alcuni dei suoi membri hanno dato alle fiamme circa quaranta chiese cristiane a Zanzibar.
Una serie di attacchi che nel corso degli ultimi anni hanno sollevato preoccupazioni di una escalation di violenza settaria in una nazione relativamente stabile e laica come la Tanzania, che oggi rappresenta la seconda più grande economia dell’Africa orientale.