Di ripeterli non ne ho voglia. Se lo facessi le righe che seguono non avrebbero alcun senso e ancor meno coerenza. Certo una cosa va detta: la caccia al commento impazzito quando accadono tragedie come quella di ieri nelle acque al largo della Libia – si temono novecento morti, il più drammatico naufragio di sempre nel Mediterraneo – sta diventando un sottogenere giornalistico a dir poco raccapricciante. Non mi interessa discutere delle frasi xenofobe, razziste, semplicemente indegne per chiunque possegga un intelletto nella media.
Oltre essere prive di qualsivoglia sentimento di pietas. In questo articolo non troverete mezza citazione di quella roba. Piuttosto, mi interessa capire un paio di aspetti. Le responsabilità dei social network (se ce ne sono) e quelle dei media (se ce ne sono) nel produrre e amplificare ciò che neanche il più spietato stratega del Male avrebbe potuto augurarsi.
Primo punto, i social network. Sono piattaforme straordinarie e sterminate che in buona parte rispecchiano le dinamiche reali e in altra parte le rimodulano sulla base di una serie di elementi che compromettono il nostro rapporto con gli altri.
Ma soprattutto il nostro rapporto con noi stessi e la complessità delle vicende del mondo, la cui analisi ne esce a pezzi, ridotta spesso a conato ideologico. Il presunto anonimato di massa, la disintermediazione, il livello culturale, la ricchezza e la soddisfazione della propria esistenza, le posizioni politiche: se faccia a faccia siamo (eravamo?) costretti a fare i conti con chi siamo e chi avevamo di fronte, al bar come al circolo della pipa, oggi il rischio di quel coinvolgimento fisico, diretto, passionale si è ridotto di molto.
E con esso ogni immediata conseguente sanzione sociale, magari ristretta a un certo contesto ma profonda, toccante e implacabile. Il risultato è che chi sarebbe tornato a casa con le sue “idee” in tasca agisce oggi come un implacabile Savonarola da tastiera.
Secondo punto, i mezzi di comunicazione. C’è una colpa se quell’immondizia diventa notizia. Ed è evidentemente di chi ce la fa diventare. Non vedo particolari ragioni né tantomeno alcun significativo obbligo di cronaca che vada oltre le tre righe – che trovo perfino eccessive – nel riportare quel micidiale campione di banalità all’attenzione della pubblica opinione. Col rischio, perché l’argomento totalmente basilare, si sa, sfodera un fascino irresistibile, di aumentarne non poco la portata.
Fotogallery, articoli dedicati, tweet, sondaggi, allusioni nei tg: siamo impazziti? Qualcuno mi spieghi insomma qual è il motivo. La ragione per cui qualche centinaia di commenti fuori controllo di utenti che esultano per novecento vite scomparse e che ritengono evidentemente la propria, di vita, più degna di essere vissuta rispetto a una di quelle interrotte l’altra notte, siano diventate una fonte giornalistica, un fatto da raccontare, un tassello importante al quale i lettori non possano proprio rinunciare.
Come se ciò che è accaduto e continua ad accadere da troppo tempo non meritasse finalmente, anche da parte di chi fa informazione, un po’ più di coraggio nel fare pulizia da una parte e chiarezza dall’altra.
Non ho mai amato il vox populi come genere giornalistico. Come immersione per capire il polso della società sì, senz’altro. Ma realizzato in privato, per farsi un’idea e scendere ad alzo zero, che ovviamente non fa mai male.
Figuriamoci se possa apprezzarne la riproposizione in versione social, con schermate prese qua e là e rilanciate sui siti delle testate o su Twitter e Facebook, spesso anche da ottimi professionisti, tanto da diventare appunto contenuti di notizie titolate “La più grande strage di migranti vista dai social. Tra commenti di cordoglio e chi vuole più morti”. Questa roba non ci serve proprio.
La continua caccia al commento scabroso fa male anzitutto al nostro essere uomini, alla dignità del mestiere giornalistico, a chi lavora in queste ore per salvare quelle persone e anche a chi, nel chiuso delle stanze, cerca di trovare una soluzione.
Per converso aumenta l’autostima di chi scrive quelle bestemmie, perché ne eleva il lato più deprimente a elemento di notizia, favorendo la proliferazione di queste opinioni e generando uno smottamento costante dell’approfondimento nei confronti di una realtà che sempre più, se la capiamo di meno, non ci lascerà via d’uscita. Certe volte anche il silenzio sarebbe un modo corretto di fare informazione.
Fonte: Wired