L’annuncio dell’Unione africana (Ua) sull’imminente invio di cinquanta esperti militari in Burundi, in vista delle elezioni legislative e presidenziali delle prossime settimane, riflette una situazione che con il passare dei giorni diventa sempre più incerta e drammatica. La decisione dell’organizzazione di Addis Abeba giunge al termine del vertice tenutosi la scorsa settimana in Sudafrica e dedicato anche alla crisi nel piccolo paese dell’Africa centrale.
Nel corso dei colloqui con i delegati dell’Ua, i rappresentanti del governo di Bujumbura hanno ribadito il massimo impegno per uscire dall’impasse, nata dalla decisione del presidente Pierre Nkurunziza di presentarsi alle elezioni per ottenere un terzo mandato, in aperta violazione della Costituzione. Stando, però, alle testimonianze che arrivano dal Burundi, l’opposizione e la società civile contestano decisamente le rassicurazioni che il presidente burundese ha fornito nel corso del vertice agli altri leader africani. Del resto, l’uccisione da parte della polizia, nel corso dei disordini cominciati ad aprile, di almeno venti manifestanti che denunciavano come incostituzionale la ricandidatura di Nkurunziza, testimonia l’escalation della tensione nel paese.
Secondo alcuni osservatori, la crisi in Burundi trae origine dall’accordo di pace firmato ad Arusha nell’agosto 2000, per porre fine a una guerra civile durata sette anni, che ha causato più di trecentomila vittime. L’intesa prevedeva che, dopo un periodo di tre anni, durante il quale per i primi diciotto mesi avrebbero governato i tutsi e per i successivi diciotto mesi gli hutu, sarebbe stato nominato un presidente di transizione (Domitien Ndayizeye) e sia nell’esercito che nel governo sarebbero state riservate delle quote di rappresentanze per entrambe le etnie.
Un compromesso nato in un contesto in cui gli hutu rappresentano l’80% della popolazione e i tutsi appena il 15%. Già in passato Nkurunziza aveva mostrato insofferenza riguardo all’accordo e l’anno scorso aveva provato a modificare la parte della Costituzione che garantisce una rappresentanza fissa ai tutsi nelle istituzioni di governo. Mentre, genera non poco preoccupazione il fatto che di recente l’ala giovanile del suo partito, i cosiddetti imbonerakure, è diventata una specie di gruppo armato, che ricorda le famigerate milizie interahamwe e impuzamugambi, responsabili dei massacri in Ruanda.
Nel complesso, l’elezione a presidente di Nkurunziza, leader del partito al governo Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia), avvenuta nell’agosto 2005, non ha normalizzato la contrapposizione etnica e la sua determinazione a ottenere un altro mandato dopo dieci anni di potere ha innescato una nuova crisi nel paese.
Secondo il Cndd-Fdd, in base agli accordi di Arusha, Nkurunziza può ripresentarsi alle prossime elezioni in quanto, in caso di vittoria, sarebbe il secondo e non il terzo mandato, perché quello ottenuto nel 2005 rientrerebbe in circostanze straordinarie che esulano dalle regole costituzionali. I leader dell’opposizione e della società civile sostengono invece che il mandato del 2005 rientra nei limiti previsti dalla Costituzione, quindi Nkurunziza non si può ricandidare.
Secondo l’articolo 96 della Costituzione del Burundi, il presidente della Repubblica deve essere eletto a suffragio universale per un mandato di cinque anni rinnovabile una sola volta. E’ dunque evidente che Nkurunziza non può ora presentarsi per la terza volta. Per di più, molti giuristi africani e internazionali, sono concordi nel ritenere che gli accordi di pace di Arusha furono siglati al solo scopo di terminare la guerra civile e avviare il paese alla democrazia. E quindi si tratta di un semplice patto di validità temporale e regionale che non può influenzare la Costituzione di un paese.
Inoltre, il 9 agosto 2005, il Comitato di Controllo della pace in Burundi dichiarò gli accordi di Arusha ultimati con successo. E quando un accordo termina, le parti sono libere da ogni impegno e non possono rifarsi all’accordo originario senza formulare nuove discussioni e firmare emendamenti o raggiungere ulteriori intese.
La Corte Costituzionale burundese, completamente controllata da Nkurunziza, al contrario afferma che il primo mandato del 2005 ricade sul titolo XV della Costituzione, che all’articolo 302 fissa le regole per la presidenza straordinaria del post conflitto. Di conseguenza, il mandato del 2005 non rientrerebbe nel calcolo dei limiti massimi presidenziali sanciti dalla Costituzione.
Ad aprile, la presidente della Commissione dell’Unione africana Nkosazana Dlamini Zuma ha espresso dubbi riguardo la decisione dell’alto tribunale burundese, sottolineando che la Costituzione burundese afferma chiaramente che un capo di stato non può ottenere un terzo mandato. Poi, in seguito alla notizia che il vice presidente della Corte, Sylvere Nimpagaritse, era fuggito in Ruanda, confessando che i magistrati erano stati minacciati e costretti a emettere quel verdetto, i leader dei paesi dell’Africa Orientale hanno chiesto al governo di Bujumbura di rinviare il voto.
Il Burundi, intanto, sembra scivolare verso la guerra civile. Tutto questo mentre la popolazione vive nella paura e circa 115mila burundesi hanno già lasciato il paese nel timore che la situazione degeneri ulteriormente, innescando un’emergenza umanitaria nella vicina Tanzania, dove la maggior parte si sono rifugiati.