Zimbabwe, crisi economica e umanitaria senza precedenti

Mentre all’Expo di Milano, lo Zimbabwe nel cluster Cereali e Tuberi del suo padiglione propone panini al coccodrillo e hamburger di zebra, da degustare con la bevanda tradizionale al baobab, il Famine Early Warning Systems Network (Fewsnet), gestito dal governo statunitense, nel suo ultimo aggiornamento del Food Security Outlook lancia l’allarme dichiarando che più di un milione e mezzo di zimbabwani sono a rischio fame.

Un dato preoccupante che, come ricorda la testata New Zimbabwe, corrisponde al 16% della popolazione totale del paese africano. Particolarmente a rischio sono le regioni meridionali, dove saranno sentite più duramente le conseguenze dei mancati raccolti, dovuti alle scarse piogge dell’ultima stagione.

Nei distretti del sud, il 23% delle terre coltivate, prevalentemente a mais, non produrranno alcun raccolto e la limitata capacità d’intervento delle istituzioni di Harare, che da tempo si trovano a corto di liquidità, non consente di porre rimedio in maniera efficace all’emergenza. Di fatto, per far fronte alla grave difficoltà alimentare le casse statali dovrebbero sostenere l’acquisto di 700mila tonnellate di mais, che ai prezzi correnti equivarrebbe a un esborso superiore a 220 milioni di dollari.

Una cifra enorme per un paese, in cui dallo scorso 15 giugno il dollaro zimbabwano ha smesso di avere corso legale ed è stato ufficialmente sostituito dalle due monete già in uso: il dollaro americano e il rand sudafricano. Una decisione che può apparire drastica, ma del tutto in linea con la realtà, poiché nessuno utilizzava più la moneta locale da parecchio tempo.

Nell’ottobre 2008, l’inflazione nella nazione australe aveva raggiunto lo stratosferico livello del 231.000.000%, tanto che la banconota più grossa in circolazione, quella da centomila miliardi, non era sufficiente a comprare un biglietto dell’autobus. Nell’aprile 2009, nel tentativo di stabilizzare l’economia, il governo decise di non stampare più dollari zimbabwiani, sostituendoli con il dollaro americano e altre valute estere.

La scelta di intraprendere la “dollarizzazione dell’economia” favorì lievemente il ritorno degli investitori stranieri e produsse anche dei timidi segnali positivi riguardo alle performance economiche registrate dal paese. Lo Zimbabwe, però, era sempre sull’orlo del baratro e il 30 gennaio 2013, giunse la notizia che, dopo aver pagato i salari dei funzionari statali, le finanze del governo erano alla paralisi con soli 217 dollari nelle casse.

Molti economisti sono concordi nel ritenere che una delle principali cause del collasso economico dello Zimbabwe sia da ricercarsi nel massiccio e controverso programma di riforma agraria (Fast Track Land Reform Programme), avviato dal presidente Mugabe nei primi mesi del 2000.

Il provvedimento ingiunse a 2.900 i proprietari terrieri bianchi, i white farmer, di lasciare le proprie aziende agricole per distribuirle tra i piccoli coltivatori neri. L’esproprio, però, non sortì alcun effetto positivo poiché il governo non fornì aiuti sufficienti agli agricoltori locali, che non furono in grado di mantenere l’elevata produzione di quello che un tempo era considerato il granaio dell’Africa.

Inoltre, un rapporto dell’Unione Commerciale dei Coltivatori (Cfu) dello Zimbabwe, ha stabilito che a trarre vantaggio dalla confisca della terra ai bianchi sono stati soprattutto Mugabe e la sua famiglia, che ottennero l’assegnazione di ben 39 aziende agricole. Sempre secondo la Cfu, la riforma agraria varata da Mugabe, ha comportato un decremento della produzione pari al 70%, costato al paese circa 12 miliardi di dollari. Tutto questo, ha innescato la destrutturazione dell’ossatura economica dello Zimbabwe generando una vera e propria rovina sociale.

Il tracollo finanziario dell’ex colonia britannica ha prodotto il degrado dei più elementari servizi sociali e ha investito tutti i settori economici con tangibili ripercussioni sullo sviluppo. Peraltro, il paese è stato anche colpito da una successione di siccità e inondazioni, che hanno inciso pesantemente sulla crescita del mais e sulla resa delle coltivazioni.

Quanto sia grave attualmente la situazione nello Stato dell’Africa australe, lo testimonia un recentissimo articolo di Dumisani Ndlela, vice capo redattore del settimanale economico dello Zimbabwe “The Financial Gazette”. Il giornalista non nasconde il suo timore nel descrivere come la fragile economia zimbabwana sia oggetto di una forte contrazione che potrebbe determinare un aumento dei disoccupati, andando a colpire le categorie sociali più vulnerabili, fino ad innescare una crisi umanitaria, economica e sociale senza precedenti.

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