La violenza che tormenta da ormai sette mesi il Burundi, inizialmente non aveva una precisa motivazione etnica. Ma nel paese africano la violenza che deriva dell’odio interetnico – hutu contro tutsi, come avvenne nel 1994 in Ruanda – è costantemente in agguato. Il regime di Bujumbura, minacciato da una ostilità permanente e da un crescente e stringente isolamento internazionale, non ha esitato a sollecitare le corde, sempre efficaci, dell’odio interetnico sulla parte della popolazione hutu.
“Dovete polverizzare, dovete sterminare queste persone che devono solo morire. Io vi do questo ordine, avanti! Quando sentirete il segnale con l’ordine che tutto ciò deve finire, non ci sarà più posto per le emozioni e i pianti. […] Aspettate il giorno in cui si dirà “lavorate”, e vedrete la differenza. I poliziotti, ora, si nascondono per mettersi al riparo dalle granate, ma vedrete la differenza il giorno in cui riceveranno l’ordine di mettersi al lavoro”[1].
“Se qualcuno viene catturato con un’arma, che non venga poi a lamentarsi. Coloro che piangeranno o si lamenteranno, saranno considerati complici”[2]
“Anche se le forze dell’ordine non riuscissero a ristabilire la calma, abbiamo una popolazione di nove milioni di persone alle quali sarà sufficiente dare un segnale […] e in qualche minuto sarebbero qui […] Chi sopravviverebbe, allora, di quelli che non accetteranno di mettersi al passo?”[2]
Per chi segue da anni gli avvenimenti nella Regione dei Grandi Laghi, queste parole riecheggiano in modo sinistro quelle che si udivano prima e durante i tre terribili mesi del genocidio in Ruanda, fra l’aprile e il luglio del 1994. Ma non sono state prese da un libro di storia, bensì sono state pronunciate nei giorni scorsi da tre importanti autorità del Burundi. Quelle del primo paragrafo da Révérien Ndikuriyo, presidente del Senato; quelle del secondo da Emmanuel Ntahomvukiye, ministro della Difesa; quelle del terzo da Alain Guillaume Bunyoni, ministro della Pubblica Sicurezza.
Anche nel 1994, dalle onde della Radio Television Libre des Milles Collines, ribattezzata “Radio del Terrore”, e dalle colonne del giornale Kangura si incitava la popolazione a compiere diligentemente il “lavoro”. E il “lavoro” consisteva nel massacro metodico e implacabile dei tutsi e dei cosiddetti “hutu moderati” dove “moderati” erano considerati gli oppositori al regime e quelli che non intendevano trucidare uomini, donne e bambini perché appartenevano ad una etnia diversa dalla loro. Anche oggi, come 21 anni fa, il presidente del Senato ha assicurato che ci saranno terre e case “disponibili” per i migliori “lavoratori”.
La storia del Burundi, 10 milioni e 400mila abitanti su 25.400 Kmq di terre abitabili, è fatta di massacri interetnici culminati in una guerra civile durata dieci anni e terminata (o, forse, solo interrotta) con gli accordi di pace firmati ad Arusha, in Tanzania, nel 2000. Sulla base di quegli accordi, dopo un periodo di transizione, nel 2005, il Parlamento nominò presidente Pierre Nkurunziza, già allenatore di una squadra di calcio e capo di uno dei più forti movimenti di guerriglia, il Cndd-Fdd (Comité National pour l Défence de la Démocratie-Forces pour la Défence de la Démocratie). Nkurunziza fu confermato alla presidenza nelle elezioni del 2010, boicottate dall’opposizione e giudicate fraudolente da numerosi osservatori.
Se la Costituzione è scomoda basta cambiarla. Se non ci si riesce, la si aggira
Come quelle di molti paesi africani, la Costituzione del Burundi prevede un massimo di due mandati presidenziali per la stessa persona. Nell’aprile scorso, Nkurunziza, come tanti altri presidenti africani, ha annunciato di volersi candidare di nuovo nonostante l’impedimento. Lo si sapeva da tempo, visto che, in precedenza, il presidente aveva tentato di abolire la clausola dei due mandati ma non aveva ricevuto il sostegno del Parlamento. Fallito questo tentativo, Nkurunziza ha giustificato le sue intenzioni sostenendo che il suo primo mandato, scaturito da una nomina parlamentare e non da una elezione popolare, non rientrava nei limiti previsti. La Corte Costituzionale gli ha dato ragione ma un’ampia parte della popolazione ha iniziato a manifestare la sua contrarietà per le strade della capitale Bujumbura e di alcune delle città più importanti.
Opposizione e repressione
La situazione è degenerata rapidamente. Le manifestazioni si sono moltiplicate e la repressione si è fatta sempre più brutale. Arresti arbitrari, sparizioni, esecuzioni extragiudiziarie, si sono moltiplicati. Il ritrovamento per le strade dei cadaveri di oppositori, o presunti tali, è diventato “normale”. Numerosi giornalisti e attivisti per i diritti umani sono caduti vittime di attentati assieme a membri delle loro famiglie. Anche un paio di autorevoli membri del regime sono stati uccisi. Tutte cose già viste agli inizi degli anni novanta, nei mesi che hanno preceduto lo scoppio della guerra civile. Questo terribile déjà vu ha già provocato oltre 200 morti[3] e ha spinto più di 200mila burundesi a cercare rifugio in Tanzania (107mila), Ruanda (70mila), Repubblica democratica del Congo (17.400), Uganda (15.300) e Zambia (750)[4].
Un esercito diviso e un fallito colpo di stato
Agli inizi di maggio, mentre il presidente era in Tanzania per discutere la situazione nel suo paese con i capi di Stato della Regione, preoccupati dalla instabilità burundese, storicamente contagiosa, una parte dell’esercito lo ha dichiarato decaduto. Il colpo di stato è fallito e questo ha intensificato l’ondata di arresti fra i quadri dell’opposizione, vera o presunta. In base agli accordi del 2005, l’esercito, da molti considerato una forza stabilizzante, è costituito per il 50% da Hutu e per il 50% da Tutsi, ma le divisioni al suo interno sono numerose e sembrano andare al di là del fattore etnico. Colui che ha guidato il golpe fallito, il Generale Godefroid Niyomabare è un Hutu. Così come il Capo di Stato Maggiore, Generale Prime Niyongabo, che è rimasto fedele al presidente [5].
Elezioni: una barzelletta che non fa ridere
Alla fine di maggio, l’Unione europea ha sospeso la sua missione di monitoraggio del processo elettorale a causa di “restrizioni dei media, eccessiva forza contro i dimostranti e un clima generalizzato di intimidazioni”. Anche la Chiesa Cattolica, molto influente in Burundi, ha ritirato il proprio sostegno al processo elettorale[6]. In giugno e luglio, in barba alle raccomandazioni della “comunità internazionale”, inclusi i vertici dell’Unione africana, si sono tenute criticatissime elezioni presidenziali e parlamentari.
L’Unione africana, a conferma della sua disapprovazione, non ha inviato osservatori elettorali, un gesto che non aveva mai compiuto nei confronti di un paese membro. E alla fine Nkurunziza è stato dichiarato vincitore al primo turno con il 70% dei voti espressi. Il più autorevole e popolare leader dell’opposizione, Agathon Rwasa, che ha ottenuto il 18,9% dei voti espressi, ha definito le elezioni “una barzelletta”.
Agathon Rwasa, un oppositore “storico”
Rwasa è un leader storico. Negli anni ottanta fu tra i fondatori del Palipehutu (Parti pour la Libération du Peuple Hutu) e fu a capo della sua ala armata (l’Fnl, Front de Libération National). Ha combattuto per anni contro i governi a maggioranza tutsi che hanno guidato il paese fino al 1993. L’Fnl ha continuato a combattere anche dopo gli accordi di Arusha e ha deposto le armi solo nel 2008. Nel 2013 Rwasa è rientrato trionfalmente a Bujumbura, dove è a capo dell’Fln, ormai trasformatosi in partito politico.
La sua eloquente disapprovazione delle ultime elezioni, non gli ha impedito di accettare il seggio parlamentare al quale è stato eletto e di accettare la carica di vicepresidente del parlamento. Ha motivato queste sue scelte affermando che l’opposizione deve conservare una sua visibilità politica, che isolarsi avrebbe fatto il gioco del regime e che questo potrebbe essere un passo verso la riconciliazione nazionale[7].
Nessuna riconciliazione
Ma la riconciliazione non avanza. Dopo le elezioni le proteste non si sono fermate. In alcune province piccoli gruppi armati hanno sostenuto combattimenti con reparti dell’esercito. Questi scontri fanno pensare a movimenti armati che si stiano formando per dare inizio ad una nuova guerra civile. Il governo ha accusato il Ruanda di fomentare i disordini. In Ruanda, dal 1994, è al potere un governo a maggioranza tutsi. Questa mossa del governo burundese pare un ulteriore passo verso la trasformazione di uno scontro politico in scontro etnico[8].
Il presidente ruandese, Paul Kagame, ha seccamente respinto le accuse e aspramente criticato il suo omologo burundese e i suoi collaboratori che “non hanno imparato niente” da quanto è successo in Ruanda nel 1994 e che “massacrano la loro popolazione dal mattino alla sera”[9]. In precedenza, il ministro degli Esteri ruandese, Louise Mushikiwabo, aveva dichiarato che “il problema del Burundi non è il Ruanda. Il problema del Burundi è il Burundi”[10].
L’ultimatum di Nkurunziza
Il 2 novembre, il presidente ha emanato un ultimatum che intimava di consegnare alle autorità le armi illegalmente possedute. Dallo scadere dell’ultimatum, sabato 7 novembre a mezzanotte, le forze dell’ordine sono autorizzate ad usare ogni mezzo, a entrare nelle abitazioni per perquisizioni e accertamenti. E hanno mano libera. Le strade della capitale si sono riempite di persone in fuga dai quartieri considerati “ostili” al presidente: Cibitoke, Jabe, Mutakura, Ngagara, Nyakabiga. Nella mattinata dell’8 novembre, mentre scriviamo queste righe, le forze di polizia hanno iniziato le perquisizioni casa per casa[11]. Stanno perquisendo abitazioni abbandonate dai loro abitanti in fuga. E hanno libertà di saccheggio.
L’odio interetnico, facile da attizzare, difficilissimo da placare
La violenza che tormenta il paese da ormai sette mesi, al suo inizio, non aveva una motivazione etnica. La maggior parte degli oppositori del presidente appartiene alla sua stessa etnia, quella, maggioritaria, degli hutu. Ma in Burundi la deriva dell’odio interetnico è costantemente in agguato. Non a caso, i cinque quartieri nominati più sopra sono abitati, in maggioranza, da tutsi.
Il regime, minacciato da una ostilità permanente e da un isolamento internazionale crescente, non ha esitato a toccare le corde, sempre efficaci, dell’odio interetnico, come le dichiarazioni riportate all’inizio di questo articolo provano. Questo tipo di manipolazione è facile a tutte le latitudini e nelle circostanze più diverse. Le conseguenze sono drammatiche e a lungo termine. Ma questa lezione della storia rimane ignorata. Sia dai manipolatori che dai manipolati.
Telefonate drammatiche da Bujumbura
Negli ultimi giorni, chi scrive ha contattato telefonicamente alcuni conoscenti di vecchia data, burundesi e ruandesi residenti a Bujumbura. I loro resoconti, sempre brevi per la paura di intercettazioni, parlano di cadaveri per strada, rapimenti e uccisioni in pieno giorno, sparizioni. Alcuni dei cadaveri ritrovati nelle strade sarebbero stati mutilati e ad alcuni sarebbe stato strappato il cuore. Questi ultimi “dettagli” si ritrovano anche in un rapporto della Federazione internazionale delle leghe per la difesa dei diritti umani (Fdlh) che ha sede a Parigi[2] e in un servizio della BBC[12].
Un altro fantasma dal genocidio ruandese del 1994
I nostri interlocutori parlano, anche, di milizie addestrate nella vicina Repubblica democratica del Congo dai “guerriglieri” dell’ Fdlr (Forces Démocratiques pour la Libération du Rwanda), un gruppo armato autore, negli ultimi venti anni, di massacri indiscriminati e formato da ex miliziani e militari autori del genocidio del 1994 in Ruanda (e da loro discendenti). Difficile non ricordare le milizie armate che così tanta parte hanno avuto nel massacro di circa un milione di persone nel 1994. Allora, si trattava delle milizie interahamwe (coloro che attaccano insieme) e impuzamugambi (coloro che combattono insieme). Il solo pronunciare questi nomi fa ancora rabbrividire chi ha vissuto quei mesi.
Anche il presidente Nkurunziza ha una sua milizia. Si tratta degli imbonerakure (coloro che vedono da lontano). Nel giugno sorso, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il Giordano Zeid Raad al-Hussein, ha espresso forti preoccupazioni per gli atti di violenza di questa milizia e ha manifestato il fondato timore che le uccisioni, le torture e le violenze da essa perpetrate possano portare la situazione burundese ad un punto di non ritorno[13]. Secondo alcuni dei nostri interlocutori, molti elementi delle milizie filo presidenziali che seminano il terrore nelle strade di Bujumbura, parlano kinyarwanda. Si tratterebbe di interahamwe infiltrati e venuti a continuare il “lavoro” in Burundi.
Se questo fosse vero, il timore di una nuova tragedia interetnica sarebbe maggiormente sostanziato e giustificato. Usiamo il condizionale perché sappiamo, per esperienza vissuta, quanto il terrore, purtroppo giustificato, possa alterare le percezioni personali in un paese in cui la paura e la diffidenza sono una presenza costante e fanno da sfondo ad ogni pensiero. Usiamo il condizionale, ma alcune delle affermazioni dei nostri interlocutori sono state riportate anche dalla BBC[4].
Un regime all’angolo avanza a grandi passi verso il disastro
Il regime è senza fiato. Contestato all’interno e isolato all’esterno, sta sconsideratamente e criminalmente tentando l’ultima carta, quella dello scontro etnico. Disgraziatamente, questa carta potrebbe sortire gli effetti sperati degli ottusi e sanguinari manipolatori che la stanno giocando. Se ciò succedesse, ed è probabile che succeda, si rivelerebbe una carta tragica, sanguinosa e perdente per tutti.
Maurizio Murru (saluteinternazionale.info)
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Bibliografia
- Bensimon C. Crainte de violence au Burundi après le discours du Président. Le Monde, 06.11.2015
- Fédération Internationale des Ligues des Droits de l’Homme. La communauté internationale doit agir vite pour prévenire l’irréparable. 06.11.2015
- Burundians flee capital in run-up to crackdown. Aljazeera, 08.11.2015.
- United Nations High Commissioner for Refugees. Burundi Situation [PDF: 998 Kb]. Unhcr Regional Update 17, 23.10.2015.
- Burundi, what is behind the coup bid?BBC, 15.06.2015
- Burundi elections, EU withdraws poll observers. BBC, 28.06.2015
- Muhorakeye Nadine. Agathon Rwasa: “Nous siegeons au Parlement Burundais pour ne pas décevoir ceux qui nousont fait confiance“. Jeune Afrque, 30.07.2015
- Ba Mehdi. Jean Pierre Chrétien: “Ne pas tomber dans le piège d’un amalgame entre Burundi et Rwanda”. Jeune Afrque, 06.07.2015
- Crise au Burundi: les rémontrances de Paul Kagame à Pierre Nkurunziza. Radio France Internationale, 08.11.2015,
- Rwanda: Kigali rejette les accusations d’ingérence venue du Burundi. Radio France Internationale, 23.10.2015,
- Burundi: 7 personnes tuées à Bujumbura. Les quartiers contestataires se vident. Jeune Afrique, 08.11.2015
- Burundi tit-for-tat killings spread fear. BBC, 03.11.2015
- Burundi opposition rejects new poll date. BBC, 09.06.2015