L’Africa ogni giorno deve confrontarsi con guerre e malattie, rivalità etniche e religiose, che hanno provocato milioni di morti, malgrado ciò sono diversi i paesi che hanno cominciato a percorrere il faticoso e tortuoso cammino della pace e a intraprendere la via della crescita economica e dello sviluppo. Al di là del Mediterraneo, di fronte alle coste italiane, si apre immenso il continente dove è in corso il maggior numero di conflitti al mondo.
Prima del coraggioso viaggio del Papa e prima dell’attentato in Mali di novembre, l’attenzione dei media occidentali verso le violenze che sconvolgono l’Africa era quasi nulla. Eppure, volendo osservare il solo Mali, un attentato che ricorda molto da vicino una delle stragi di Parigi era stato eseguito lo scorso febbraio, quando al grido di “Allah Akbar” due terroristi avevano aperto il fuoco in un locale frequentato soprattutto da turisti occidentali.
Conflitti religiosi ed etnici rivelano un continente che, dopo aver perso la sua identità con la prima ondata colonialista, è stato sconvolto dalla periferizzazione della guerra fredda. Un conflitto “delegato”, alimentato non solo da armi e denaro delle due superpotenze, ma anche da convinzioni ideologiche e religiose aventi la funzione di compattare le schiere.
Le costruzioni ideologiche basate su biologia e confessioni religiose hanno resistito alla caduta del Muro, non solo per la stratificazione delle violenze, ma anche perché ulteriormente alimentate da chi ha interessi economici in gioco.
L’Africa è un continente ricco di risorse, eppure è sempre più povero perché le guerre hanno una ricaduta immediata sull’economia del continente, con investimenti ridotti e debiti in crescita. Un circolo vizioso che predispone singoli, etnie, comunità e stati a conflitti visti come “guerre di sopravvivenza”. Ne derivano liste di arruolamento perennemente aperte, che hanno dato vita ad oltre 150 gruppi militari tra jihadisti, separatisti, anarchici o semplici mercenari e che spesso ricorrono alla coscrizione forzata di bambini soldato.
I principali paesi africani interessati da guerre e attentati terroristici
Mali
Cominciamo da questo paese per l’attenzione che ha ricevuto nell’ultimo mese. Gli occidentali presi di mira negli attentati più recenti sono vittime di gruppi islamisti che hanno agito in rappresaglia dell’intervento della Francia a sostegno del governo locale.
Negli anni precedenti i guerriglieri tuareg avevano occupato la parte settentrionale del paese pretendendo la secessione. A sostegno di questa causa si sono aggiunti i gruppi jihadisti operanti nella zona. Nel 2013 intervengono i francesi e cambiano il peso delle forze in gioco. Viene siglato un accordo di pace nello stesso anno, ma dopo pochi mesi ricominciano gli attentati.
Egitto
Ci spostiamo geograficamente in Egitto per entrare in un paese che è a pieno titolo nell’area geopolitica del Medio Oriente. La storia contemporanea egiziana è caratterizzata infatti dalle tensioni con Israele e dalla conseguente importanza attribuita ai comandi militari. Dopo la Primavera araba, nel 2012 viene eletto alla presidenza Mohamed Morsi, leader del partito espresso dai Fratelli musulmani.
Il rischio di una deriva confessionale dello stato egiziano incoraggia l’esercito – garante della laicità delle istituzioni – a ordire un golpe nel 2013. La repressione violentissima è orchestrata dal presidente e generale Abd al-Fattah al-Sisi, che nel 2014 condanna a morte 1.200 membri della Fratellanza musulmana, ma si stima che ne abbia fatti imprigionare 20mila e uccisi 2.500.
La repressione delle istanze islamiste all’interno si accompagna alla mobilitazione militare in chiave anti-Isis. Il generale al-Sisi vanta di aver messo in sicurezza l’Egitto e l’area del Sinai, ma l’attentato che ha provocato il disastro aereo del volo di linea russo precipitato nella zona il 31 ottobre scorso prova il contrario.
Tunisia
Da qui è partita la Primavera araba con il gesto disperato di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco il 17 dicembre del 2010 e che meno di un mese dopo morì a seguito delle ustioni riportate.
In Tunisia il movimento di protesta è riuscito nell’intento di costruire una democrazia, ma gli atti terroristici di matrice islamista sono molto frequenti. Nonostante le istituzioni abbiano più volte asserito di aver sconfitto al Qaeda, si è ben lungi dall’aver debellato il jihadismo.
L’attacco al Museo del Bardo, nel quale persero la vita 24 persone di cui quattro italiani, ne fu una triste dimostrazione. A giugno furono ancora una volta i turisti obiettivo dei terroristi, che aprirono il fuoco contro i turisti inermi di un resort a Sousse. Sono seguiti altri atti terroristici, di cui il più recente è stato un attentato kamikaze in un bus della guardia presidenziale nel quale lo scorso novembre hanno perso la vita 15 persone.
Libia
Il nome dell’ex colonia italiana ricorre di frequente nei talk show politici in onda dopo gli attentati di Parigi di novembre. Il paese nordafricano è diventato infatti il simbolo di un Occidente tanto efficace nella distruzione, quanto incapace di costruire un futuro di pace e democrazia.
L’intervento bellico in Libia a marzo del 2011 assurge ad esempio di improvvisazione, prevalenza dei governi nazionali su quello comunitario e mancanza di strategia, laddove Francia e Gran Bretagna attaccarono l’esercito di Muammar Gheddafi incassando i vantaggi dell’effetto sorpresa a danno più dei partner europei che del Colonnello stesso, che pure riportò perdite importanti nei sistemi di difesa.
Ad ottobre dello stesso anno, Gheddafi è ucciso nei dintorni di Sirte dai guerriglieri della rivoluzione e la medesima sorte attende il figlio Mutassim. La resistenza viene quindi guidata dal secondogenito, Saif al-Islam, che in televisione lancia veementi proclami contro il Consiglio nazionale di transizione e la Nato.
Poco dopo viene arrestato e la sua sorte è emblematica della balcanizzazione della Libia: il governo di Tripoli ne sentenzia la condanna a morte, ma Saif al-Islam è detenuto in un carcere che risponde al governo di Tobruk, che non riconosce l’esecutivo espresso dall’ex capitale libica.
Tra Tripoli e Tobruk, trovano spazio anche i miliziani del sedicente Stato islamico, che dopo essere stato costretto dai filoqaedisti del Consiglio dei Mujhaeddin ad abbandonare Sirte continua a forzarne i confini, mentre guerre di quartiere portano la bandiera nera a sorgere e scomparire su diverse zone urbane come quelle di Bengasi.
Nella zona orientale – a rivendicare prima e dopo Gheddafi la propria autonomia – vi sono i tuareg. Un quadro complesso, quello libico, che potrebbe essere reso ancora più instabile ed esplosivo se le forze in campo dovessero decidere di seguire l’antico adagio “il nemico del mio nemico è mio amico”.
Repubblica Centrafricana
Un conflitto essenzialmente politico sta assumendo qui i caratteri di quello religioso, con i cristiani che rappresentano la maggioranza e perseguitano i musulmani.
Durante gli anni della guerra fredda al potere si alternarono giunte militari, finché non vennero indette elezioni che diedero vita a un’esperienza democratica che si concluse nel 2003 con il golpe del generale Bozizé, la cui “legittimità democratica” venne sancita a posteriori con le elezioni del 2005 ritenute valide dalla comunità internazionale.
Il colpo di stato, tuttavia, venne realizzato con l’aiuto di ribelli e mercenari provenienti dal Ciad e da altri paesi prevalentemente musulmani. Ben presto i ribelli accusano il generale di aver disatteso le promesse, non avendoli integrati nell’esercito regolare dopo il successo del golpe.
Nasce così Seleka (che significa “alleanza” nella locale lingua sango), organizzazione militare che unisce i gruppi ribelli contro il governo e in quanto composta soprattutto da miliziani esterni alla Repubblica Centrafricana, è prevalentemente musulmana.
Seleka semina morte e terrore, i ribelli si rendono responsabili di stupri, massacri, razzie e uccisioni sommarie, cominciando a spostare la natura del conflitto e a favorirne la connotazione religiosa.
Bozizé aveva resistito al governo anche grazie all’aiuto della Francia e della coalizione Micopax (Missione per il consolidamento della pace nella Repubblica Centrafricana), dopo che entrambe riducono il loro impegno in loco, nel marzo 2013, il presidente scappa e ripara in Camerun, mentre i ribelli Seleka conquistano la capitale.
Ne segue una guerra civile dai contorni progressivamente sempre più netti. Nascono le milizie di autodifesa anti-balaka, definite cristiane e appoggiate dai lealisti del deposto presidente François Bozizé, che compiono diversi massacri a danno dei musulmani.
La Francia, autorizzata da una risoluzione dell’Onu, interviene nuovamente a dicembre del 2013. I gruppi paramilitari cristiani, intanto, incoraggiati anche dalla nuova situazione politica, proseguono le proprie persecuzioni a danno dei musulmani.
L’Unione europea approva una propria missione di pace nel martoriato stato centrafricano. Presidente e primo ministro, provenienti dal Seleka, si dimettono e a gennaio del 2014 viene nominata dal Ceeac (Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale) presidente del governo di transizione centrafricano Catherine Samba-Panza.
La donna, originaria del Ciad e già sindaco della capitale Bangui, è scelta per la sua estraneità sia ad anti-balaka che a Seleka. Dopo l’insediamento, Samba-Panza annuncia l’istituzione di tribunali penali speciali per giudicare i crimini di guerra e di indire le elezioni entro il 2015.
Repubblica democratica del Congo
Fino al 2003 ha avuto luogo quella che è stata definita la “prima guerra mondiale africana”: lo Zaire, dopo il governo dispotico di Mobutu, era ridiventato Congo ed entro i suoi confini si confrontavano sei paesi africani per il controllo della parte orientale, ricca di giacimenti di diamanti, oro e coltan.
I ribelli tengono sotto scacco il Congo orientale, mentre formalmente il governo è detenuto da Laurent-Désiré Kabila, che nella prima guerra del Congo aveva sconfitto Mobutu grazie al supporto di ruandesi e ugandesi.
Assassinato nel 2001, gli succede il figlio Joseph Kabila. Nel 2006 si tengono le prime elezioni multipartitiche degli ultimi 45 anni, che vedono la vittoria di Kabila. Due anni dopo, Human Rights Watch accusa il presidente di aver soppresso più di 500 oppositori politici.
Oggi è ancora lui a governare il paese o almeno la parte occidentale. Sul confine con Ruanda, Uganda e Burundi insistono violente incursioni di ribelli ed ex-militari. Tuttavia, a uccidere più di una guerra violentissima sono la miseria e le malattie, che mietono circa 38mila vittime al mese.
Uganda
Dopo l’indipendenza (1962), l’Uganda sperimenta una serie di colpi di stato. Tra le soppressioni e le vendette che ne seguono, agli inizi degli anni ottanta, sorge l’Nra (National Resistance Army).
Una forza antigovernativa che riesce ad occupare la capitale nel 1986, il cui leader Yoweri Kaguta Museveni è ancora oggi presidente dello Stato africano. Negli anni, Museveni impegna il suo paese in diversi conflitti, appoggiando in Congo prima Kabila poi i suoi oppositori, e scontrandosi con il Sudan che aveva appoggiato i ribelli dell’Lra (Esercito di resistenza del signore).
Oggi il nord del paese resta instabile, le condizioni di vita precarie e, ad aggravare la situazione, si è aggiunta la presenza importante e pericolosa dei jihadisti somali di al-Shabaab, che hanno già colpito più volte e in maniera drammatica i villaggi cattolici. Dopo gli attentati di Parigi l’allerta nella capitale Kampala è altissima.
Sud Sudan
Ci sono volute due guerre civili per arrivare ad una pace che ancora non ha messo d’accordo tutti. All’origine dei conflitti bellici ci sono due culture profondamente diverse, con un nord che si considera arabo e musulmano ed un sud animista e cattolico.
Ciononostante, prima di concedere l’indipendenza, la Gran Bretagna organizzò il Sudan in un unico governo federale, cheaccordava ampia autonomia al sud. La violazione degli accordi da parte dei leader del Sudan settentrionale portarono, nel 1955, all’inizio della prima guerra di indipendenza che si concluse nel 1972.
Dopo diciasette anni di conflitto e mezzo milione di morti, soprattutto civili, si giunse agli accordi di Addis Abeba che concedevano ampia autonomia al sud. Nel 1983, dopo undici anni di pace, il presidente Ja’far al-Nimeyri impose la sharia, fece processare i non musulmani e sciolse il governo del Sud, scatenando un nuovo conflitto.
La seconda guerra civile del Sudan passerà alla storia come una delle più sanguinose di sempre: durò 22 anni, mieté 1,9 milioni di morti e causò un movimento di quattro milioni di profughi.
L’accordo di pace, siglato nel gennaio 2005, stabiliva sei anni di convivenza pacifica terminati i quali il sud avrebbe potuto votare un referendum per l’indipendenza del Sud. L’intesa sancì pure che la sharia poteva essere applicata solo al Nord.
Il colonnello cattolico John Garang de Mabior, carismatico leader del Splm (Movimento di liberazione del popolo sudanese), che aveva guidato il sud alla vittoria, venne nominato vicepresidente del Sudan del nord.
Sette mesi dopo la firma degli accordi, Garang precipitò misteriosamente mentre era a bordo dell’elicottero presidenziale ugandese MI-172 sulla via del ritorno da Rwakitura, nel distretto di Mbarara nell’Uganda occidentale, dove si era incontrato con il presidente Museveni. La vedova di Garang, Mama Rebecca Nyandeng, continua tutt’oggi ad accusare l’attuale presidente sudsudanese Salva Kiir di essere il mandante dell’omicidio del marito.
Benché siano state forti e credibili le voci di un complotto, non si giunse ad una nuova guerra civile. Nel luglio 2011, il Sudan del Sud votò per l’indipendenza, ma eserciti formalmente autonomi continuano a combattere per il controllo di Abyei, luogo in cui Nord e Sud si scontrano per il controllo di immensi interessi petroliferi.
Somalia
Le guerre con l’Etiopia, la dittatura militare, la secessione di Somaliland e la conseguente guerra civile. Nel mezzo carestia e un sistema di governo basato prevalentemente su tribù, consuetudini e corti islamiche: la Somalia dopo l’indipendenza non ha conosciuto pace.
Nel 2004, intervengono Etiopia, Usa e Ue per trovare un accordo e portare i signori della guerra in terra somala ad impegnarsi formalmente contro al Qaeda, di fatto contro tutti gli estremismi religiosi di matrice islamica.
Nel 2009, viene eletto presidente del governo di transizione Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, ex leader dell’Unione delle corti islamiche. Da settembre 2012, il presidente della Somalia è Hassan Sheikh Mohamud, ex docente universitario che ha fondato il Partito per la pace e lo sviluppo, consociata somala dei Fratelli musulmani.
Profonde riforme hanno caratterizzato il paese sotto il suo governo e a lui va il merito di aver riavviato i colloqui con il Somaliland, la parte secessionista del nord. Eppure il terrorismo islamico resta una realtà nella vita quotidiana della Somalia a causa delle milizie radicali di al-Shabaab, formatesi dopo la sconfitta dell’Unione delle corti islamiche.
Kenya
A creare apprensione in Kenya è, al momento, la presenza attiva di al-Shabaab, che lo scorso aprile ha ucciso 147 studenti non musulmani nel campus universitario di Garissa. Pochi mesi prima, il gruppo jihadista aveva compiuto un altro attentato con le stesse dinamiche uccidendo 14 persone a Mandera, località al confine con la Somalia. Mentre nel settembre 2013, un attacco di al-Shabaab al centro commerciale Westgate di Nairobi provocò 71 vittime di tredici diverse nazionalità e 150 feriti.