La chiamano la Corea del Nord africana, è uno dei paesi più chiusi al mondo, dove non si tengono elezioni da oltre venti anni. E’ anche il secondo per numero di migranti che attraversano il Mediterraneo, dopo che la Siria le ha tolto di recente il primato. Eppure dell’Eritrea, piccolo Stato situato in una posizione strategica nel Corno d’Africa, si sa poco o nulla. L’Eritrea, colonia italiana dal 1890 e britannica dal 1941, divenne uno Stato federato dell’impero etiope nel 1952, per decisione delle Nazioni Unite.
Quando nel 1962 l’Etiopia decise di annetterla, scoppiò la guerra per l’indipendenza, guidata dal Fronte di liberazione eritreo, presto affiancato e soppiantato dal Fronte di liberazione del popolo eritreo, di ispirazione marxista. La guerra con l’Etiopia si riaccese nel 1978, e solo nel 1991 l’Eritrea riuscì a riconquistare la capitale Asmara. L’indipendenza fu proclamata nel 1993 in seguito a un referendum (99% di voti favorevoli) e dopo la proclamazione le aspettative di sviluppo erano alte, ma da allora l’Eritrea è de facto nelle mani del presidente Isaias Afewerki, che l’ha trasformata in un paese sempre più isolato e militarizzato.
L’Eritrea oggi è una nazione poverissima, in cui le persone più abbienti guadagnano circa dieci euro al mese e la corruzione è dilagante. Esiste un unico partito, il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia, e non sono mai state tenute elezioni democratiche. La costituzione del 1997 non è applicata e non è rispettata la separazione dei poteri. Ogni forma di opposizione è duramente repressa e comporta la detenzione in campi di prigionia, spesso senza processo. Sono frequenti le sparizioni, gli arresti arbitrari, le torture e i lavori forzati.
Secondo Amnesty International, almeno 10mila persone sono in prigione per motivi politici e il rispetto dei diritti umani è nullo. Per Reporter senza frontiere, l’Eritrea è con la Corea del Nord, all’ultimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, mentre l’università di Asmara è stata chiusa, molti professori e studenti incarcerati.
La militarizzazione del paese, che secondo il governo è una conseguenza del conflitto mai sopito con l’Etiopia (che ancora occupa parte del territorio), non solo implica un controllo capillare della vita dei cittadini, ma anche l’imposizione di un servizio militare spesso prolungato a tempo indeterminato. Tutti gli uomini e le donne sono chiamati a prestare servizio durante l’ultimo anno della scuola dell’obbligo e sono tenuti a rimanere a disposizione fino ai 50 anni (le donne “solo” fino a 40).
Gli obiettori di coscienza sono duramente puniti. Spesso i coscritti sono costretti ai lavori forzati e sono vittime di abusi, anche sessuali. Le ripercussioni sulla produttività economica sono enormi. Alla fine delle scuole, è il governo ad assegnare ai cittadini il lavoro. Mentre le risorse minerarie del paese sono sfruttate principalmente da compagnie straniere, si sa poco sulla situazione economica: le scarse piogge degli ultimi anni hanno causato una crisi alimentare e umanitaria. Il regime nega la situazione e pone forti limitazioni agli aiuti internazionali.
L’Eritrea è una forza destabilizzante per tutto il Corno d’Africa: si segnalano tensioni con lo Yemen e il confine con l’Etiopia è controllato dai caschi blu dell’Unmee (United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea). L’Onu ha imposto sanzioni al paese, accusato di sostenere gli islamisti somali di al-Shabaab, mentre il governo ha espulso varie ong e figure diplomatiche, tra cui l’ambasciatore italiano. E ai giornalisti stranieri è vietato l’ingresso.
Secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, oltre 4mila eritrei fuggono dal paese ogni mese, rischiando la morte nel deserto e nel mare. Il regime li considera traditori, e le forze armate hanno l’ordine di sparare-per-uccidere tutti coloro che vengono scoperti. I migranti fanno la fortuna dei trafficanti di uomini, andando a finanziare non solo i criminali, ma anche il terrorismo, e rischiano di essere preda dei trafficanti di organi.
Secondo il Washington Post, nel 2014 il 22% delle persone sbarcate in Italia proveniva dall’Eritrea. Quei pochi che hanno successo nella fuga subiscono una beffa aggiuntiva: sulle rimesse vige la cosiddetta diaspora taxation pari al 2% dell’importo, cosicché i migranti finiscono per finanziare i loro stessi carnefici. In base a questa situazione, a giugno, un rapporto dell’Onu raccomandava il riconoscimento sistematico dello status di rifugiato per chi fugge dall’Eritrea, così come previsto per chi è costretto a lasciare la Siria: per ora in risposta c’è solo silenzio.
Per approfondire quanto accade in Eritrea si rimanda alla lettura del Report of the commission of inquiry on human rights in Eritrea, pubblicato dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr)