Crisi in Burundi: esecuzioni extragiudiziarie a Bujumbura

Il dispaccio dell’agenzia di stampa missionaria Fides riguardo le violenze che venerdì scorso hanno insanguinato la capitale del Burundi è molto eloquente: sono da 150 a 200 le persone ritrovate morte in quelle che appaiono essere uccisioni extragiudiziarie a Bujumbura. La notizia proviene da fonti locali della società civile, che per motivi di sicurezza hanno chiesto di rimanere in anonimato e smentiscono seccamente la versione fornita dalle autorità, secondo cui le persone uccise erano armate.

Armi che, a quanto sembra, non sono state mostrate pubblicamente. Curioso anche notare che buona parte dei cadaveri sono stati rinvenuti con le mani legate dietro la schiena e colpiti da proiettili al capo: metodi da esecuzione extragiudiziaria. Sempre secondo le medesime fonti, aleggia il terribile sospetto che il numero delle persone uccise in questa maniera potrebbe essere ancora maggiore, perché si ipotizza l’esistenza di fosse comuni.

La gravità delle violenze ha indotto il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a tenere una sessione speciale sull’escalation della crisi burundese. La sessione, convocata su richiesta degli Stati Uniti, è stata sostenuta da 17 su 47 membri del Consiglio dei diritti umani e da 25 Stati osservatori. E’ curioso notare, che il Ghana è stato l’unico fra i tredici Stato africani che attualmente presiedono l’organismo, a sostenere il provvedimento.

Per stabilire le esatte circostanze delle uccisioni, Carina Tertsakian, ricercatrice di Human Rights Watch (Hrw) per il Burundi, intervistata da France24 ha chiesto una seria indagine indipendente, osservando che il sistema giudiziario politicizzato e corrotto del Burundi non sarebbe all’altezza del compito, sottolineando che le autorità locali hanno ordinato di rimuovere rapidamente i corpi, compromettendo le indagini. Finora è stato appurato, che l’ondata di uccisioni extragiudiziarie è la risposta di polizia ed esercito all’assalto coordinato contro tre campi militari a Bujumbura nella notte tra il 10 e l’11 dicembre, operata da un gruppo di ribelli che nelle ultime settimane ha conquistato alcuni avamposti strategici alle porte e nelle periferie della capitale.

La forza di resistenza è nata in conseguenza della dura repressione perpetrata dalla polizia burundese durante le proteste contro il terzo mandato del presidente Pierre Nkurunziza, ottenuto in aperta violazione dell’articolo 96 della Costituzione vigente nel paese africano. La crisi che da otto mesi funesta il Burundi è chiaramente politica e non etnica, come confermato dal fatto che le manifestazioni contro il terzo mandato del presidente Nkurunziza si sono avute sia nei quartieri hutu che in quelli tutsi.

La maggioranza delle persone uccise è però costituita da appartenenti all’opposizione tutsi. Di conseguenza, colpendo in maggioranza questa componente e risparmiando finora quella hutu si palesa il concreto rischio di etnicizzare la crisi. Il susseguirsi delle violenze sta inoltre alimentando i timori che l’instabilità possa degenerare in un conflitto in piena regola, appena un decennio dopo la fine di una guerra civile combattuta in gran parte proprio sulla base di contrapposizioni etniche.

Un rischio che trova conferma anche dalla diretta testimonianza di chi come don Dieudonné Niyibizi, vive a Bujumbura. Il sacerdote burundese, intervistato da Radio Vaticana, spiega quanto sia sempre più evidente che la crisi politica in atto possa degenerare in una guerra civile. E chiarisce come il conflitto politico abbia anche un sottofondo etnico. In questo contesto, stride anche la critica verso giornalisti e blogger, orientati a fornire analisi allarmiste e previsioni estreme di massacri etnici in un paese, dove non hanno mai messo piede.

Quello che è accaduto la scorsa settimana è chiaramente un eccidio del quale ancora non si conosce il bilancio esatto, considerando che in quello fornito dalle autorità non è chiaro se siano compresi i 28 corpi ritrovati nelle strade dei quartieri in cui è più forte l’opposizione al presidente. Operando un’obiettiva lettura dei fatti ed evitando realisticamente di evocare lo spettro di un genocidio, possiamo sicuramente parlare del rischio tangibile di guerra civile e di conseguenti uccisioni su larga scala.

L’evidenza di tutto ciò è riconducibile a quanto accaduto venerdì scorso, quando si è avuta l’ennesima dimostrazione di come un regime minacciato da una forte ostilità interna e da un isolamento internazionale crescente, per mantenere inalterato il suo potere non esiti a ricorrere all’uso della violenza, negando al contempo che sia in corso qualsiasi crisi politica. Del resto, come riferito dal Financial Times, negli ultimi tre mesi Nkurunziza è apparso solo due volte a Bujumbura, preferendo restare nella sua roccaforte di Ngozi e rifiutando ogni tipo di contatto con i leader dell’opposizione, molti dei quali hanno lasciato il paese e si rifiutano di negoziare fino a che il presidente non avrà rassegnato le dimissioni.

Sembra anche grottesco che alla radio i leader militari esortino la popolazione a difendersi dai “terroristi al-Shabaab”, come da tempo viene chiamata la popolazione tutsi dalla propaganda burundese. Non esiste, infatti, nessun tipo di analogia tra questo gruppo jihadista di base in Somalia e le milizie di autodifesa dei quartieri popolari a maggioranza tutsi. Forse, in rarissimi casi la fede religiosa, perché in Burundi i musulmani non sono più del 5%. Tutto questo, evidenzia la debolezza di un regime basato sull’uso della forza, che sta trascinando il Burundi sull’orlo del collasso economico invece di percorrere la via della mediazione e della riconciliazione, in uno dei paesi più poveri e marginalizzati del mondo.

Categorie: Conflitti, Crisi umanitarie, Politica | Tag: , , , | Lascia un commento

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