L’acqua è un bene fondamentale, indispensabile ed insostituibile, come dice la scienza, la religione e la pratica quotidiana. Il diritto internazionale, pur difettando del riconoscimento formale del diritto all’acqua, annovera altre regole derivanti dalle consuetudini o dai diversi accordi tra Stati. C’è anche da rilevare che le “dispute idriche” si presentano con maggiore frequenza riguardo le acque transfrontaliere, che delimitano i territori di più Stati.
Questi ultimi hanno il diritto di sfruttare come ritengono più opportuno le risorse idriche presenti esclusivamente sul loro territorio, ma quando le acque sono transfrontaliere, la libertà di ogni singolo paese deve essere necessariamente disciplinata: in particolare, i cambiamenti approntati a monte sono in grado di riverberarsi su tutto il corso di un fiume sino a valle.
L’Egitto sta attualmente fronteggiando il timore di vedere le proprie risorse idriche drasticamente diminuite, a causa dell’ultima diga che l’Etiopia sta erigendo lungo il fiume Nilo. La “guerra dell’acqua” tra i due paesi affonda le sue radici nel trattato di matrice coloniale stipulato nel 1929 e rinegoziato nel 1959, tra Gran Bretagna, Egitto e Sudan, con il quale i due Stati africani si spartivano, seppur non equamente, le acque del Nilo e con cui si riconosceva altresì il diritto di controllo da parte degli egiziani su qualunque opera da costruire sul fiume.
Col tempo la supremazia britannica su questo territorio e la velleità di superpotenza dell’Egitto sono divenute anacronistiche ed hanno alimentato le insoddisfazioni degli altri Stati rivieraschi, che nel 1999 hanno dato vita a un percorso istituzionalizzato di cooperazione (Nbi), finalizzato a dividere equamente le quote del bacino nilotico in virtù del principio inviolabile della sicurezza idrica. Il progetto, però, non è mai stato condiviso dal Sudan, né tanto meno dall’Egitto, che continua a difendere i propri diritti storici.
A sua difesa, Il Cairo ha riesumato un altro accordo siglato dall’Etiopia con la Gran Bretagna, risalente al 1902, con il quale il governo di Addis Abeba si impegnava a non realizzare alcuna opera che interrompesse il corso del fiume senza il preventivo assenso britannico. In verità, a norma del diritto internazionale, gli Stati sorti a seguito della decolonizzazione non sono vincolati dagli accordi conclusi dai colonizzatori, a meno che non si tratti di trattati localizzabili. Ovviamente l’Egitto invoca tale natura del trattato del 1929, gli altri Stati rifiutano di adeguarvisi perché ormai indipendenti.
Al di là delle norme pattizie, i giuristi sono soliti fare riferimento alle regole di Helsinki e alla Convenzione Onu del 1997. Le prime si propongono di prevenire e controllare l’inquinamento dei corsi d’acqua transfrontalieri attraverso l’applicazione del principio precauzionale del “chi inquina paga” e dell’equità intergenerazionale. La Convenzione Onu sugli usi dei corsi d’acqua internazionali si candida a strumento globale di gestione delle acqua internazionali. Nel ribadire l’obbligo di utilizzo equo e razionale delle acque e attenta alle necessità umane essenziali, la Convenzione prevede di prevenire i danni significativi nei confronti degli altri Stati rivieraschi attraverso la cooperazione e la comunicazione di eventuali progetti che possano mutare il decorso delle acque. Purtroppo, la Convenzione è diventata operativa solo nel 2014.
Solo nella speranza di ottenere una maggiore agibilità politica, l’Egitto ha ceduto alle pretese dell’Etiopia e nel marzo del 2015, insieme al Sudan, ha concluso un accordo per non ostacolare la gigantesca diga etiope sul Nilo Azzurro e per precisare le quantità di acqua che raggiungerà il suo territorio. Invero l’Etiopia aveva deciso unilateralmente di avviare la costruzione della diga. Le speranze riposte nel maestoso progetto sono quelle di far fronte non solo alla richiesta di acqua da parte di una popolazione sempre più in crescita, ma anche di sfruttare l’energia prodotta dalla diga affinché possa essere il volano di uno sviluppo economico ed industriale.
L’atteggiamento dell’Egitto è di certo da condannare, poiché propenso a far valere antichi privilegi ormai ingiustificati, ma anche la condotta dell’Etiopia è da sindacare, poiché incurante del predetto principio di cooperazione e di preventiva comunicazione. Non può tacersi che simili comportamenti siano in netto contrasto con le finalità della normativa internazionale: prima che un patrimonio da sfruttare economicamente, l’acqua transfrontaliera è una risorsa da condividere.
La convenzione del 1997 in quanto Convenzione, resta appunto convenzione. Non è norma generale di diritto internazionale e neanche consuetudine consolidata. Quindi mi sembra un po’ troppo esigere il rispetto di una Convenzione che oltretutto non è ancora in vigore.
La convenzione è entrata in vigore il 17 agosto 2014 [https://www.unece.org/env/nyc.html]