La valenza strategica dell’interesse della Cina per l’Africa

Gli operatori economici italiani che hanno partecipato a gare pubbliche in qualche paese africano e si sono scontrati con concorrenti cinesi, quasi sempre hanno perso la partita. A prima vista, si potrebbe immaginare che la causa vada cercata nei prezzi più bassi offerti dalle aziende cinesi, ma chi opera su quei paesi sa che la ragione è ben altra. Davanti a gare per materiali o servizi di un valore x, molto spesso i cinesi hanno presentato offerte per un x moltiplicato anche trenta o quaranta volte, comprendendo un finanziamento garantito dal governo di Pechino.

Il prestito in oggetto non copriva solo la fornitura richiesta ma vi aggiungeva anche la realizzazione di infrastrutture necessarie al paese africano. Si trattasse di ammodernamento o di nuove costruzioni di strade, porti, ospedali, edifici pubblici o telecomunicazioni, milioni di dollari erano messi a disposizione del governo locale e si garantiva la loro realizzazione in tempi rapidi.

Solitamente, le offerte prevedono che questi finanziamenti possano essere restituiti a tassi più che ragionevoli nell’arco di trent’anni. Diventano, quindi, eccezionalmente allettanti per presidenti e primi ministri desiderosi di mostrare ai loro cittadini realizzazioni che le casse locali, spesso vuote o esauste a causa di corruzione e inefficienze, non potrebbero mai permettersi.

Se in aggiunta, il paese coinvolto non riceve finanziamenti privati o pubblici dai governi occidentali a causa di una evidente instabilità politica o di mancato rispetto dei diritti umani, le offerte di Pechino diventano irrinunciabili. Solo al momento della firma dei contratti, a gara già chiusa e vincitore stabilito, si scopre che la generosità cinese pretende garanzie sovrane dai governi locali e, nel caso che i pagamenti dovuti non potranno essere mantenuti, la proprietà a tutti gli effetti delle opere realizzate.

Poiché l’instabilità politica in Africa è molto diffusa e le gestioni finanziarie dei governi non sono mai da manuale, la probabilità che allo scadere del finanziamento gli impegni assunti non saranno mantenuti è altissima. Risultato? Tra poche decine di anni la Cina si troverà direttamente a possedere le maggiori infrastrutture strategiche del continente e talvolta le miniere o i pozzi oggetto dei generosi “prestiti”. Lo stesso avviene con frequenza anche in Sud America.

Qualcuno nel mondo sembra non accorgersi del significato di queste dinamiche e pensa che l’invadenza cinese sia puramente commerciale, quindi non pericolosa strategicamente. Sono gli stessi che sostengono che nella sua storia la Cina non sia mai stata particolarmente aggressiva al di fuori dei propri confini, tanto meno il suo esercito e la sua marina militare non sono, né saranno, in grado di fronteggiare la potenza militare degli Stati Uniti.

Costoro non ricordano, che il colonialismo moderno è più economico che militare e che il sobbarcarsi la gestione di popoli geograficamente lontani è più costoso e più difficile che condizionarli economicamente. I tradizionali imperi coloniali sono finiti ed è impossibile che ritornino ma, come dimostrarono gli olandesi nel seicento, non è necessario “occupare” l’India o la Cina per diventare determinanti in alcune aeree del mondo: basta controllarne i commerci e gli snodi vitali.

D’altra parte, gli stessi cinesi praticavano tale approccio ancor prima degli olandesi e nel quattrocento i loro traffici commerciali dettavano le regole senza mai occupare territori ma imponendo condizioni, moneta e riscuotendo tributi da ogni città importante tra il mar Cinese Meridionale e la costa est dell’Africa. I pagamenti internazionali vedono la valuta cinese ancora al quarto posto, dopo il dollaro, l’euro e la sterlina, ma il suo trend crescente è evidente. Perché’ Pechino teneva così tanto a far sì che lo yuan fosse ammesso ufficialmente tra le valute ufficiali del mondo?

Per intanto, lo Zimbabwe (ex Rhodesia), soffocato da un’inflazione enorme, ha rinunciato ad avere una valuta locale e dallo scorso gennaio ha adottato lo yuan quale moneta ufficiale del paese, in cambio della cancellazione di un debito verso Pechino di 40 milioni di dollari. E’ evidente che la Cina riservi particolari attenzioni a paesi e territori che possono garantire materie prime e generi alimentari indispensabili per nutrire lo sviluppo economico e la numerosa popolazione.

Così come è altrettanto scontato, che al medesimo scopo è necessario mettere in sicurezza tutte le vie di comunicazione relative e i maggiori porti. Lo si vede fisicamente con la politica aggressiva condotta dal gigante asiatico nel Mar cinese meridionale. Ma il sistema della Repubblica popolare non si ferma lì.

Gli investimenti cinesi in settori strategici e ricchi di know-how si espandono in tutto il mondo e, mentre mirano ad assicurarsi le importazioni, si muovono anche nella direzione opposta, quella delle esportazioni. Ben quindici sono i contratti con vari paesi per la creazione di zone di “cooperazione commerciale” e sviluppo industriale e vanno dal Venezuela a Mauritius, dall’Indonesia alla Russia, dalla Nigeria al Pakistan e via dicendo. Si tratta sempre di investimenti finanziati dal governo di Pechino con le clausole di cui sopra e molti di essi sono già operativi dal 2006. A tutt’oggi la Cina è il primo partner commerciale con ben 124 Stati, mentre la “superpotenza” statunitense si deve fermare a 52.

Invero, qualcuno ha cominciato a capire che le “donazioni” cinesi non sono del tutto disinteressate e che la apparente generosità del momento nasconde ambizioni di futuro controllo, anche politico. É per questa intuizione che qualcuno di questi progetti, approvato in un primo tempo, è stato in seguito cancellato o sospeso con pretesti vari. Sono i casi del Marocco, dell’Algeria e della Corea del Sud, ma anche altri paesi cominciano a porsi le giuste domande.

Stranamente, chi continua a sottovalutare le mosse dell’“Impero di mezzo” è soltanto l’Occidente, ignara vittima del furbesco basso profilo cinese. La ragione di questa cecità sta nel fatto che i politici nostrani pensano sempre a breve termine, alle prossime e frequenti scadenze elettorali, al consenso immediato. Al contrario, la saggia dirigenza cinese è abituata da secoli a guardare su tempi lunghi, almeno cinquanta o cento anni. Sapranno mai i leader del nostro mondo trasformarsi da “politici” in veri “statisti”?

Fonte: Sputnik
Categorie: Economia | Tag: , , , | Lascia un commento

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