Il quotidiano online L’Indro mi ha intervistato insieme all’analista Andrea Carboni, sull’indissolubile nodo che lega le materie prime ai conflitti dell’Africa e sul futuro della ‘rivoluzione industriale’ del continente. Nell’intervista viene posta in rilievo l’evoluzione che hanno anno avuto le guerre africane con l’urgente necessità di diversificare il più possibile le economie del continente e il ruolo degli investimenti stranieri, in particolare cinesi.
L’enorme ricchezza africana in termini di materie prime e risorse è da sempre considerata un tallone d’Achille per il continente, che lo espone ad attacchi e conflitti in continua evoluzione. E se, da un lato, alcune delle più sanguinose guerre tra paesi africani, con potenze regionali e locali protagoniste, sono state consumate proprio sul fronte delle risorse, è innegabile che giacimenti di petrolio, gas e preziosi minerali come il tantalio facciano gola anche alle superpotenze che primeggiano in alcuni settori industriali, in particolare quello tecnologico.
I volti di una guerra sono molti, come i suoi retroscena. Tuttavia, l’accesso e lo sfruttamento delle risorse africane sembra essere il tratto che accomuna i conflitti del continente anche a diversi livelli; non si tratta, infatti, solo di scontri e violenze aperte come quelle accuratamente testimoniate dai report mensili di Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), ma anche di forme più silenziose – ma non meno insidiose – di conflitto che vedono protagonisti quegli attori stranieri che oggi investono maggiormente sul suolo africano.
È proprio rispetto a questo panorama, allora, che è necessario capire i possibili sviluppi della cosiddetta ‘rivoluzione industriale’ africana, che sta senza dubbio determinando una rivitalizzazione economica in molti paesi. È sufficiente parlare di ripresa come conseguenza diretta degli investimenti stranieri come quelli della Cina? E alla luce degli innumerevoli conflitti aperti che ancora caratterizzano il continente, qual è il futuro che aspetta l’Africa viste le precarie e frammentarie dinamiche di potere politico ed economico?
Su alcuni di questi aspetti e, in particolare, sul legame tra gli aspetti economici e politici dei conflitti africani, sulla loro natura e sugli scenari che potrebbero profilarsi nel prossimo futuro in vista di una possibile corsa all’accaparramento di risorse, si sono soffermati Andrea Carboni, Research Analyst presso Acled e Marco Cochi, Country Analyst del think tank ‘Il Nodo di Gordio’ e docente nel Master in African Studies e nel Master in Governo dei flussi migratori presso la Link Campus University di Roma.
Dal punto di vista degli scontri fisici, il livello di violenza del 2016 nel continente africano resta alto. In particolare, rileva Andrea Carboni, “quasi tutta l’Africa è interessata da forme più o meno intense di violenza e queste forme possono variare, dalle vere e proprie guerre civili come quella del Sud-Sudan o della Somalia, fino insurrezioni di gruppi ribelli”.
Inoltre, continua il ricercatore, “a livello di dati si possono guardare tante cose: ad esempio, bisogna fare attenzione a come evolvono i tipi di conflitto rispetto a tipologie ricorrenti come le proteste, la repressione da parte dello Stato e i vari gruppi armati che emergono. Questo è il caso dell’Etiopia: l’anno scorso c’è stato un grande incremento nelle proteste che sono state represse dal Governo con migliaia di morti, e ora si assiste all’insorgere di gruppi armati organizzati che combattono nelle stesse regioni dove c’erano le proteste e sono gli unici capaci di contestare l’autorità statale”.
Tuttavia, vi è innegabilmente un’evoluzione di questo tipo di conflitti. A questo proposito è Marco Cochi a sottolineare “la rapida evoluzione della natura dei conflitti armati in Africa”, ovvero, “una trasformazione che ha avuto come ripercussione il regresso delle operazioni militari su larga scala, sempre più spesso sostituite da scontri più limitati, che coinvolgono molteplici attori in un continente che ha il maggior numero di guerre in corso al mondo”. Eppure, nonostante queste trasformazioni, il legame tra risorse e conflittualità resta una costante per l’Africa.
Cochi rileva infatti che “dopo essere stato segnata dalla periferizzazione della guerra fredda, l’Africa ha visto l’affermarsi di violenze su base etnica e religiosa, alimentate da interessi economici in gioco in un continente ricco di risorse, dove però la parte maggiore della gente è sempre più povera e le guerre hanno una ricaduta immediata sull’economia africana. Un circolo vizioso che predispone fazioni, etnie e comunità a lunghi e laceranti conflitti, dai quali derivano liste di arruolamento perennemente aperte che hanno dato vita ad oltre 150 gruppi militari tra jihadisti, separatisti o semplici mercenari, che spesso ricorrono alla coscrizione forzata di bambini soldato”.
Uno dei casi paradigmatici di guerra per le risorse che ha caratterizzato l’Africa è senza dubbio quello della Repubblica democratica del Congo (RdC) dove, come ci spiega Marco Cochi, “continuano gli scontri per il controllo delle miniere di oro, stagno, rame, tungsteno e tantalio. Inoltre, dallo scorso agosto, in cinque province del paese (Kasai, Kasai centrale, Kasai orientale, Kasai occidentale e Lomami) è in atto la sanguinosa ribellione del gruppo armato Kamuina Nsapu”. Nella RdC, in effetti, rileva Carboni “proprio la geografia del conflitto riflette la concentrazione delle materie prime. Gli scontri si concentrano infatti nella parte orientale del paese, laddove si trovano le più ampie risorse naturali. E c’è un’altra dinamica molto interessante da considerare: in queste stesse zone del Congo c’è una debolissima presenza dello Stato, che delega a milizie e gruppi armati il combattimento contro coloro che si vogliono appropriare delle risorse. Questo porta a una proliferazione di gruppi armati attivi in una regione che è relativamente piccola anche se importante”.
Il problema, tuttavia, si estende anche a diversi paesi africani come il Sud-Sudan, territorio in cui i conflitti sono “quasi sempre concentrati nel nord paese proprio per la presenza di ricchi giacimenti petroliferi. Il controllo di queste aree è determinante per la geografia dei conflitti. Anche per quanto riguarda la Libia è nel sud del paese, dove si trovano i pozzi, che si consuma il vero scontro diretto tra le due forze in campo – quella del Governo di Unità Nazionale e quella di Khalifa Belqasim Haftar. Quest’area permette l’accesso a risorse che servono a due scopi: sostenere il costo della guerra e finanziare le reti clientelari che fanno capo alle élite di supporto”.
Se è vero, dunque, che il panorama dei conflitti africani è peculiare sia per il moltiplicarsi degli attori in gioco, sia perché, come sottolineato da Carboni “per rimanere al potere in molti paesi dell’Africa è necessario o sconfiggere sul campo i contestatori, o pagarli. Quando la transazione si interrompe, si arriva alla violenza”, in questo quadro molto complesso non si può non tenere conto della presenza di attori stranieri, e, in particolare delle potenze che continuano a investire sul suolo africano – ma anche a depredarlo delle sue preziose risorse e materie prime. In particolare, Marco Cochi si è soffermato su un “dettagliato studio realizzato lo scorso luglio da War on Want” il quale afferma che “le più importanti aziende britanniche, aiutate e spalleggiate dal governo di Londra, sono in prima linea per una nuova ‘corsa all’Africa’ con il fine di garantirsi il controllo delle materie prime”. In particolare, secondo Cochi, “nella sua indagine, l’ong londinese ha individuato 101 società quotate alla Borsa di Londra, tra le quali figurano Rio Tinto, BP, BHP Billiton e Glencore, che su una superficie più grande dell’intera Germania controllano risorse in Africa per un valore complessivo di almeno 810 bilioni di sterline, equivalente al PIL del Messico. Tale scenario indica che nella macroregione è ancora in atto un saccheggio sistematico delle risorse”.
Inoltre, sempre secondo Cochi, non solo i mutamenti economici e geopolitici più rilevanti “incidono e molto spesso sono all’origine di nuovi conflitti”, ma “per contenere i mutamenti economici i paesi africani dovrebbero diversificare il più possibile le loro economie. La caduta dei prezzi del petrolio e delle materie prime hanno assestato un duro colpo alle finanze di molte nazioni africane, che hanno puntato sull’esportazione di questi prodotti come traino alla loro crescita economica. Per l’Africa è giunto il tempo di rivedere un sistema economico, che per lungo tempo ha avuto relativa facilità nell’attrarre investimenti stranieri, ottenere valuta estera pregiata e riequilibrare le bilance di pagamento di molti paesi sub-sahariani”.
Nonostante ciò, a proposito degli ingenti investimenti cinesi in Africa, Cochi non solo ne rileva la forte espansione, ma evidenzia che “l’ex Impero di Mezzo, nella sua ormai ventennale politica verso l’Africa ovviamente non è mosso da zelo filantropico. Il quadro economico africano, sebbene problematico, ha un buon potenziale d’investimento e di opportunità che ha favorito l’espansione cinese nel continente. Un’espansione mossa principalmente da motivazioni di tipo economico e politico, che agiscono come leve della politica cinese in Africa e sono riassumibili nell’acquisizione di materie prime, ricerca di nuovi mercati e supporto africano nelle istituzioni internazionali”.
Quello degli investimenti stranieri, e in particolare della Cina, è un tema caldo anche da un altro punto di vista. È Carboni a sottolineare come “la dinamica è tale per cui maggiore è la prospettiva di investimenti stranieri, maggiore è il livello di repressione dello Stato. I governi utilizzano la repressione per fermare gruppi che potrebbero essere una minaccia all’ingresso di capitali dall’estero secondo questa logica: se un investitore porta capitali dall’estero per costruire aziende o infrastrutture con un ritorno economico, è necessario tenere a bada il più possibile i contestatori per evitare che l’investitore ci ripensi. È un caso che si può applicare all’Etiopia, in cui vi sono state molte proteste contro la costruzione di infrastrutture da parte di aziende cinesi, ma anche italiane, nella regione dell’Oromia. La popolazione locale si è sollevata contro questi progetti e per evitare che il governo fosse costretto a rivederli c’è stata una grande repressione. Nel caso degli investimenti cinesi poi, questi non pongono condizioni – ad esempio riguardo al rispetto dei diritti umani – quindi la repressione è ancora più forte e violenta”.
Sui possibili scenari di una vera e propria ‘guerra per l’accaparramento delle materie prime’, che potrebbe prendere altre forme rispetto a un aperto scontro armato, Carboni preferisce non lanciarsi in previsioni. “Le dinamiche riscontrate a livello locale sono spesso difficili da interpretare, poiché tensioni nazionali e locali sono intersecate e il quadro che ne esce fuori è molto complesso. Il dato certo, tuttavia, è che i conflitti in Africa sono aumentati negli ultimi anni e questo per effetto dell’acuirsi di situazioni problematiche riconducibili all’accaparramento di risorse – come nel caso del Sud-Sudan o della stessa Libia – o all’accesso al potere locale”. Il punto, però, è la peculiarità del continente africano, dove “l’intervento straniero non riguarda necessariamente le super potenze. In Africa molto spesso sono le potenze regionali a essere protagoniste dei conflitti. C’è l’esempio del Congo, ma anche il caso della Somalia in cui vi fu un intervento militare condotto da Kenya, Etiopia, Burundi e Gibuti con lo scopo dichiarato di restaurare il governo legittimo, anche se si trattava soprattutto di aver accesso a risorse. Un altro caso è il Marocco e l’Algeria: da anni si parla di un imminente conflitto per il controllo delle risorse, eppure non è successo nulla. Talvolta si tende a ingigantire dinamiche che sono in realtà locali e regionali che non arrivano necessariamente all’escalation di una vera e propria guerra”.
Tuttavia, appare chiaro che vi siano alcuni paesi africani, in primis l’Etiopia, in cui la partita per il controllo delle risorse è ancora tutta da giocare proprio dal punto di vista dell’intervento di potenze straniere. “L’Etiopia è uno Stato molto grande e potente, sede di tanti organi internazionali, ed è un grande alleato degli USA dal punto di vista militare e politico”, spiega Carboni. “Nonostante ciò, mi pare sia anche il paese che riceve più investimenti e aiuti dalla Cina. Entrambi gli Stati dunque, hanno interessi molto forti in Etiopia – ma è anche vero che il paese è coinvolto attualmente in tanti conflitti regionali, e pensare che semplicemente le dinamiche geopolitiche in atto vadano applicate a questo contesto biforcando gli interessi su due fronti opposti è molto difficile”. D’altro canto sottolinea il ricercatore, “sarebbe sciocco pensare che gli interessi delle super potenze non contino, anche se bisogna ricordare che al momento gli attori principali in gioco in Africa sono attori locali con eventuali alleanze esterne. E difficilmente questo quadro verrà scalzato completamente a breve termine”.
Fonte: L’Indro.it