L’ultimo giorno del 2017 otto persone sono morte nelle proteste contro il presidente Kabila, che rimane al potere a oltre un anno dalla scadenza del mandato, trascinando la Repubblica democratica del Congo nell’impasse politica con pesanti ricadute in negativo sull’economia. E gli esperti avvertono, che nel 2018 la crescente instabilità e la gigantesca emergenza umanitaria possono provocare una “mega-crisi” regionale.
«La crescente instabilità politica e lagigantesca crisi umanitaria nella Repubblica democratica del Congo l’anno prossimo daranno origine a una mega-crisi nel continente africano». La previsione è di Ulrika Blom, direttrice del Consiglio norvegese per i rifugiati nella Repubblica democratica del Congo, che nella prima decade di dicembre ha lanciato l’allarme sulla deriva della crisi politica e umanitaria, che sta minando la nazione dei Grandi Laghi.
Un avvertimento sostenuto anche dal rapporto diffuso negli stessi giorni dai ricercatori del Centro di monitoraggio dei trasferimenti forzati interni (Idmc), da cui emerge che è il Congo-Kinshasa è il paese con il maggior numero di sfollati interni e supera tutte le altre emergenze in corso a livello mondiale.
L’infausto primato è il risultato della brutale ondata di violenza iniziata nel 2016, che solo quest’anno ha costretto oltre 1,7 milioni di persone a lasciare le proprie case (una media quotidiana di oltre 5.500 persone) e che secondo gli analisti è stata alimentata dalla crisi politica in atto nel paese, generata dalla decisione del presidente Joseph Kabila di rimanere in carica anche dopo la fine del suo secondo mandato.
Una lunga impasse politica
La sua ostinazione nel restare incollato alla poltrona ha trascinato l’ex colonia belga nell’impasse politica e ha contribuito al rallentamento dell’economia e all’aumento dell’inflazione, che ha provocato un vertiginoso aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, rendendo ai congolesi sempre più difficile assicurarsi la sussistenza.
Kabila è salito al potere della Repubblica democratica del Congo nel 2001 senza essere eletto, all’indomani dell’assassinio di suo padre, Laurent-Désiré Kabila, avvenuto il 16 gennaio 2001. In seguito, ha vinto le elezioni nel 2006 e nel 2011. Poi nel rispetto della Costituzione, che non permette di ricandidarsi per un terzo mandato, avrebbe dovuto lasciare il suo incarico il 20 dicembre 2016.
Tuttavia, Kabila sta continuando a governare adducendo ragioni di sicurezza, dovute alle rivolte interne nelle province orientali del Congo e nella regione del Gran Kasai, quest’ultima innescata proprio dal suo rifiuto di andarsene. Oltre a paventare la minaccia del terrorismo e i rischi dell’aggravamento della crisi economica, Kabila ha prima dichiarato di voler cambiare la Costituzione per poi rigettare ogni forma di trattativa.
Le sue macchinazioni politiche finora gli hanno consentito di restare in carica almeno sino al gennaio 2019, dopo che in spregio dell’Accordo di San Silvestro,che prevedeva la convocazione di nuove elezioni entro la fine di quest’anno, lo scorso 8 novembre, ha stabilito che non si andrà al voto prima del 23 dicembre 2018. Le elezioni locali, invece, sono state fissate per il settembre 2019, garantendo così al suo blocco politico di restare al potere per almeno altri due anni.
Le inchieste sulla rete di Kabila
In questo modo, Kabila avrà tutto il tempo necessario per escogitare altre soluzioni che gli consentano di continuare a esercitare il controllo sul Congo, dove la corruzione e il malaffare legato al suo clan continuano a farla da padroni, come dimostra un’inchiesta realizzata nel dicembre 2016 da Bloomberg Businessweek.
Dall’indagine, emerge che il presidente non vuole lasciare il potere per non rinunciare a un incarico che ha permesso a lui e alla sua famiglia di controllare le principali ricchezze del Paese,che comprendono l’estrazione di minerali, l’allevamento, la costruzione di strade e di altre infrastrutture.
Un’ulteriore conferma di quanto appurato un anno fa dal settimanale economico statunitense giunge da un’altra recente inchiesta realizzata dalla ong britannica Global Witness attraverso l’analisi dei dati dell’Extractive Industries Transparency Initiative, dai quali emerge che un fiume di denaro proveniente dal settore minerario, si è disperso all’interno di una vasta rete corruttiva legata al presidente congolese.
Leggendo il rapporto appare evidente che detenere il potere in Congo, significa gestire affari miliardari con le multinazionali e i paesi affamati di materie prime. Anche questo spiega perché Kabila non ha rispettato l’accordo di San Silvestro e continua ostinatamente a calpestare la Costituzione, che da più di un anno impone la sua uscita di scena. Nel frattempo, l’uomo forte di Kinshasa continua a restare indifferente alle vibranti proteste delle opposizioni, alla povertà e agli squilibri sociali che attanagliano il suo paese, relegato al 176esimo posto su 188, nella graduatoria mondiale dell’indice di sviluppo umano redatta annualmente dalle Nazioni Unite.
Senza dimenticare, che in 57 anni d’indipendenza il Congo è stato condizionato da guerre civili, carestie ed efferate razzie compiute contro la popolazione. In tutto questo tempo, la nazione dell’Africa centrale è stata teatro di ripetuti colpi di stato, che hanno portato al potere tiranni del calibro del colonnello Mobutu Sese Seko, che per 36 lunghi anni ha instaurato una dittatura cleptocratica nel paese.
Ma soprattutto, da quando ha ottenuto l’indipendenza il Congo non ha mai conosciuto una pace stabile e tra il 1997 e il 2003 è stato teatro di un conflitto passato alla storia come la “prima guerra mondiale africana”, che vide coinvolte otto nazioni africane e 25 gruppi armati, molti dei quali attivi ancora oggi. Un pesante retaggio che ci aiuta a capire quanto sarà difficile trovare una soluzione per stabilizzare il caotico quadro politico che sta minando il paese africano.