Zimbabwe al voto, i partiti promettono tanti cambiamenti

Domani nelle Zimbabwe si terranno le prime elezioni dell’era post-Mugabe. Gli ultimi sondaggi danno sempre favorito il presidente uscente Emmerson Mnangagwa, che nelle ultime settimane ha visto ridursi copiosamente il suo vantaggio sul candidato dell’opposizione Nelson Chamisa. Dopo una campagna elettorale segnata da intimidazioni e violenze, la priorità è di garantire elezioni più trasparenti e credibili rispetto al passato.

Mancano solo poche ore all’apertura dei seggi nello Zimbabwe, dove domani si terranno le prime elezioni generali dopo la destituzione del presidente Robert Mugabe, avvenuta lo scorso novembre ad opera di un colpo di mano dell’esercito. I zimbabwiani dovranno scegliere la nuova guida della nazione tra un totale di 23 candidati, tra i quali negli ultimi sondaggi è dato favorito l’attuale presidente Emmerson Mnangagwa, sostenuto dal partito di maggioranza, lo Zanu-PF. Anche se c’è da segnalare, che negli ultimi giorni il suo vantaggio nei confronti del quarantenne Nelson Chamisa, il candidato della principale forza d’opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), si è andato sempre più assottigliando.

Secondo un sondaggio pubblicato il 20 luglio dalla società Afrobarometer, il presidente Mnangagwa sarebbe in vantaggio di soli tre punti su Chamisa con il 40% dei consensi a suo favore contro il 37% dello sfidante, che nel precedente sondaggio effettuato all’inizio di maggio era sotto di 11 punti percentuali. La netta rimonta del leader dell’opposizione sarebbe dovuta all’aver saputo catalizzare il voto dei giovani delle aree rurali, tradizionalmente controllate dallo Zanu-PF.

Mnangagwa cerca il consenso elettorale dei bianchi

Tuttavia, il settantacinquenne Mnangagwa sembra avere ancora sufficienti possibilità di vincere le elezioni. E per assicurarsi la conferma alla massima carica dello Stato africano sta cercando il sostegno dell’elettorato “white”, che nelle precedenti consultazioni ha sempre privilegiato l’Mdc. Una preferenza originata dal fatto che nei primi anni 2000, lo Zanu-PF ha ordinato l’esproprio, spesso anche violento, di circa 17 milioni di ettari di terra che apparteneva a oltre 4mila farmer bianchi. Molti di questi agricoltori, la maggior parte dei quali ora ha tra sessanta e settant’anni, hanno lasciato il paese e ben pochi sarebbero disposti a tornare nello Zimbabwe. Senza contare, che ai sensi della vigente costituzione, gli allevatori sfrattati avrebbero diritto a un indennizzo, che Mnangagwa, quando è salito al potere a novembre, si era esplicitamente impegnato a pagare.

La mancanza di fondi nelle casse del governo, però, non gli ha consentito di onorare la promessa. Tutto questo, ha messo il “Coccodrillo”, come è soprannominato Mnangagwa per la sua astuzia e voracità, in difficoltà verso l’elettorato bianco. Così, nelle ultime battute della campagna elettorale in un comizio tenuto a Borrowdale, un sobborgo nella capitale Harare, ha tentato in tutti i modi di accaparrarsi il consenso di questa fascia elettorale assicurando di porre fine al sequestro delle fattorie di proprietà della popolazione bianca e dichiarando di essere pronto ad accogliere a braccia aperte tutti gli ex white farmer disposti a contribuire allo sviluppo del settore agricolo.

Alla fine del comizio, ha chiosato il suo discorso con l’impegno di rivolgere una maggiore attenzione alla questione delle divisioni razziali. Come era però facilmente prevedibile, le promesse che il presidente uscente ha rivolto all’elettorato bianco sono state bollate dall’opposizione come una semplice trovata pubblicitaria.

Un paese sotto il controllo dei militari

Padre Brian MacGarry, un missionario inglese gesuita intervistato dall’Agenzia Fides, che negli anni settanta prese la cittadinanza rhodesiana e da allora vive nell’attuale Zimbabwe, è molto scettico sulla situazione politica in vista del voto che si terrà il 30 luglio. Padre Brian è dell’idea che «i generali hanno tutto sotto controllo e che i candidati della maggioranza e dell’opposizione sono comunque in qualche modo controllati da loro». L’anziano missionario, non pensa che le elezioni di domani porteranno grandi cambiamenti in Zimbabwe, mentre rimane l’incognita dei militari che, in passato, hanno influenzato il voto favorendo sempre lo Zanu-Pf ricorrendo all’uso della violenza e a intimidazioni.

In tutto questo non possiamo dimenticare le difficilissime condizioni in cui versa l’economia del paese, dove il contante, ormai quasi inesistente, è stato sostituito da “Bond Notes” – che ufficialmente valgono un dollaro, ma di fatto molto meno. Mentre negli ultimi mesi, il governo ha intrapreso misure economiche che hanno messo al bando le importazioni per sostenere la produzione interna, con il risultato di ridurre i beni di consumo e il conseguente aumento dei prezzi.

La fonte principale di reddito dello Zimbabwe resta comunque l’agricoltura, che potrebbe generare maggiori introiti legati all’export e maggiore occupazione di qualunque altro settore produttivo, ma la sua struttura nella scorsa decade è stata minata alle fondamenta dalla demagogica quanto dannosa riforma agraria di Mugabe.

La degenerazione del clima elettorale

Preoccupa anche il fatto che la campagna elettorale è stata segnata da un elevato numero di denunce di intimidazioni e di minacce di violenza, come provato dalle Nazioni Unite, che hanno documentato anche l’obbligo imposto ai contadini a partecipare ai comizi nelle aree rurali. Per monitorare il corretto svolgimento delle operazioni di voto, mercoledì scorso, è partita alla volta dello Zimbabwe la missione di osservazione elettorale dell’Unione Africana, guidata dall’ex primo ministro etiope Hailemariam Desalegn, che al suo arrivo ad Harare ha evidenziato che la missione sarà condotta in conformità con la Carta e la Dichiarazione dell’Ua e con la Costituzione dello Zimbabwe.

Da tutte queste premesse, è facile intuire che la sfida per chiunque uscirà vincitore dal voto di domani è senz’altro ardua, ma nell’immediato la priorità è che siano garantite elezioni immuni da violenze politiche, più trasparenti e credibili di quelle dell’era Mugabe.

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