aggiornato il 16 agosto 2020 – World’s Most Wanted è il titolo della nuova docuserie che dallo scorso 5 agosto è possibile vedere su Netflix e che racconta la storia dei cinque più ricercati criminali al mondo. Tra questi c’è anche Samantha Louise Lewthwaite, di cui il documentario The White Widow: Searching For Samantha, diretto da Adam Wishart, ripercorre le tappe dell’escalation criminale a partire dalla conversione all’Islam a 17 anni.
Samantha Lewthwaite, spesso è stata definita come la terrorista più ricercata del mondo e conosciuta anche come la “vedova bianca”. Secondo le ultime segnalazioni dei servizi di sicurezza britannici, che dal 2011 sono sulle sue tracce, la donna si nasconderebbe nello Yemen. E nel gennaio 2019, l’MI6 aveva annunciato una svolta decisiva nella ricerca della donna, dopo aver ricevuto informazioni ritenute attendibili grazie al reclutamento di una fonte a Nairobi.
Fonte con cui la “vedova bianca” aveva stretti legami e che ha messo gli inquirenti britannici sulle tracce della donna tanto da ritenere che finalmente erano sulla pista giusta per giungere alla sua cattura. Secondo le informazioni ricevute dall’intelligence britannica, dopo essersi macchiata di gravi crimini in Kenya e in Somalia, la terrorista si era trasferita nello Yemen devastato dalla guerra, dove è stata avvistata nella zona dell’ex protettorato britannico di Aden e del porto marittimo di Mukalla. Prima di raggiungere lo Yemen, la Lewthwaite avrebbe visitato Dubai e c’è il sospetto che stava pianificando nuovi attacchi anche a Londra.
Uno degli agenti che dal 2012 sta dando la caccia alla terrorista ha spiegato che la Lewthwaite si sta nascondendo nel paese mediorientale e rimane la ricercata numero uno del Regno Unito. Mentre la stampa keniana scrive che nello Yemen, la vedova bianca avrebbe reclutato donne kamikaze pagandole 300 sterline, una cifra enorme per tante famiglie ridotte alla miseria. Si ritiene che abbia arruolato anche attentatori suicidi di soli 15 anni per mandarli a morte imbottiti di eroina e nell’estate 2018 è apparsa la notizia che Lewthwaite abbia insegnato a dei terroristi come fabbricare giubbotti suicidi e scegliere i più famosi luoghi di vacanza per farli esplodere.
Secondo gli stessi organi di stampa, è assai probabile che la Lewthwaite – figlia di un ex soldato britannico che ha servito nel 12° reggimento dei Lancieri della Regina – sia sotto la protezione di una rete di combattenti del gruppo jihadista al-Shabaab, che l’avrebbe aiutata a raggiungere lo Yemen, diventato un centro di reclutamento per i terroristi del gruppo somalo.
Un po’ di chiarezza
Prima di vedere il documentario trasmesso su Netflix, sarebbe necessario fare un po’ di chiarezza sull’inquietante figura di Samantha Lewthwaite, cominciando dalla sua nascita nel dicembre 1983 a Banbridge nella contea di Down, nella storica provincia dell’Ulster nell’Irlanda del Nord. Secondo le amiche che l’hanno frequentata quando andava ancora a scuola, la separazione dei suoi genitori le provocò una profonda “devastazione interiore” che l’ha spinta a cercare conforto in una famiglia musulmana, che viveva nelle vicinanze della sua abitazione.
Così Samantha decise di convertirsi all’Islam all’età di 17 anni con il nome di Sherafiya, ma il suo avvicinamento all’integralismo islamico ricevette un impulso decisivo dopo il matrimonio con Abdullah Shaheed Jamal, nome di guerra di Germaine Maurice Lindsay, uno dei quattro shahid di al-Qaeda che il 7 luglio 2005 seminarono morte e terrore a Londra. È proprio da questo connubio proviene anche il soprannome di vedova bianca.
La Lewthwaite conobbe il kamikaze che dilaniò 26 persone in un vagone della Piccadilly Line alla fine di ottobre 2002, durante una marcia contro la guerra in Iraq organizzata ad Hide Park dalla coalizione Stop The War. In quel periodo, la giovane convertita britannica frequentava la prestigiosa Soas, la Scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra, che abbandonò poche settimane dopo.
Samantha, contro il volere dei suoi genitori, il 30 ottobre 2002 sposò Linsday usando il nome di Asamantra e nei primi mesi dopo le nozze affittarono una casa a Huddersfield, per poi trasferirsi nel settembre 2003 ad Aylesbury nel Buckinghamshire, dove viveva la famiglia della Lewthwaite e dove sei mesi dopo nacque il loro primo figlio. Mentre la secondogenita fu data alla luce due mesi dopo gli attentati del 7 luglio 2005 nella capitale britannica.
Samantha dichiarò di non essere a conoscenza delle attività estremiste del marito che, a suo dire, si era convertito all’islam poco prima di partecipare agli attacchi suicidi. Le prime indagini di Scotland Yard rivelarono però un coinvolgimento diretto di Samantha, che in seguito ha confessato di conoscere personalmente Mohammad Siddique Khan, ritenuto dagli inquirenti inglesi l’organizzatore degli attacchi.
Nel 2008, la Lewthwaite avrebbe lasciato il Regno Unito alla volta del Sudafrica dove conobbe l’imam radicale sunnita Sheikh Abdullah el-Faisal. Il predicatore, che aveva scontato quattro anni nella prigione di Long Lartin nel Worcestershire per aver fomentato l’odio razziale e aver esortato i suoi seguaci a uccidere ebrei, cristiani e americani, le presentò il suo secondo marito, il keniota Fahmi Jamal Salim, che nel 2011 venne accusato dalle autorità di Nairobi dell’omicidio di due agenti.
Salim era il cognato del reclutatore di al-Qaeda, Musa Hussein Abdi, nome di battaglia Musa Dheere, ricercato per il bombardamento delle ambasciate americane a Nairobi e Dar es-Salaam e ucciso il 7 giugno 2011 in un conflitto a fuoco a un posto di blocco a Mogadiscio. Dheere fu eliminato insieme a Fazul Abdullah Mohammed, l’allora capo militare di al-Shabaab e pianificatore del sanguinoso attacco all’Hotel Paradise di Mombasa, che nel novembre 2002 provocò 15 vittime.
Si ritiene che fino al 2009 la coppia abbia vissuto in Sudafrica, dove Salim gestiva un’attività di forniture mediche nell’area di Brixton a Johannesburg, che la Lewthwaite usava occasionalmente come recapito postale. Nel frattempo, Samantha si era procurata un passaporto sudafricano falso intestato a Natalie Faye Webb con il quale nel 2011 sarebbe entrata in Kenya passando per il confine con la Tanzania. Durante la sua permanenza in Sudafrica la vedova bianca ha contratto debiti per più di 8mila dollari tra prestiti bancari e affitti di immobili, per poi raggiungere il Kenya insieme al marito Salim, anche lui dotato di un passaporto falso a nome di Mark Costa.
Nel dicembre 2011, la polizia kenyota individuò una cellula terroristica a Mombasa che stava organizzando attacchi contro turisti occidentali nella zona e arrestò Jermaine Grant, cittadino britannico di origini jamaicane convertito all’Islam (esattamente come il primo marito della Lewthwaite); l’uomo venne trovato in possesso di materiale che doveva essere utilizzato per assemblare ordigni esplosivi. Dopo la cattura, Grant rivelò agli inquirenti che il capo della cellula era una donna, tale Samantha Lewthwaite che abitava dall’altra parte della città.
La fuga in Somalia
La polizia fece irruzione nell’edificio segnalato da Grant, ma di lei non c’era più alcuna traccia. Sherafiya era già fuggita, presumibilmente in Tanzania per poi spostarsi in Somalia, paese dove potrebbe essere tutt’ora nascosta. Anche se la convertita sarebbe stata avvistata di nuovo in Sudafrica all’inizio del 2013, quando secondo una segnalazione che la Jewish Community Security Organisation sudafricana ha trasmesso attraverso il Mossad all’unità di intelligence criminale della polizia sudafricana, la donna stava spiando sedi diplomatiche di diversi paesi occidentali nel quartiere di Acadia, dove sono ubicate la maggior parte delle ambasciate di Pretoria. E dall’estate del 2013 è stata più volte segnalate in Yemen da dove avrebbe pianificato un attentato alla locale ambasciata britannica, con conseguente preventiva e temporanea chiusura della sede diplomatica.
Comunque la ricostruzione dei suoi spostamenti rivela che alla fine del 2011, l’estremista britannica con i suoi quattro figli avrebbe raggiunto la Somalia, dove è stata reclutata nelle fila di al-Shabaab. Secondo l’intelligence keniana, nella regione del Basso Scebeli avrebbe avuto l’incarico di addestrare cellule di aspiranti kamikaze appartenenti all’unità suicida dell’Istishhadyin. Poi, nel maggio 2014, il Daily Mirror ha pubblicato la notizia che la terrorista britannica si era sposata per la terza volta con uno dei leader di al-Shabaab, Hassan Maalim Ibrahim, noto anche come Sheikh Hassan, e aveva lasciato l’Istishhadyin.
Fin qui tutto è abbastanza attinente alla realtà, che comincia ad essere distorta dopo l’assalto compiuto nel settembre 2013 da al-Shabaab contro il centro commerciale Westgate di Nairobi, dove rimasero uccise 67 persone di tredici diverse nazionalità. Pochi giorni dopo l’attacco, i media britannici riportarono la notizia che l’Interpol avevo emesso nei confronti della Lewthwaite un mandato di arresto internazionale e lo aveva diramato in 190 Paesi.
Tuttavia, alcuni rapporti misero in serio dubbio il suo coinvolgimento nell’episodio. Questi rapporti furono attentamente esaminati dai funzionari del governo britannico e non emerse alcuna conferma che Lewthwaite avesse avuto un ruolo nella pianificazione dell’attentato al Westgate. Lo stesso al-Shabaab in un post su Twitter precisò: «Abbiamo un numero adeguato di giovani che sono pienamente impegnati e non impieghiamo le nostre sorelle in operazioni militari del genere». Anche l’allora capo della polizia keniana David Kimaiyo confermò che Lewthwaite non era coinvolta nella carneficina.
La speculazione dei media proseguì quando scrissero che la donna fosse implicata anche nel massacro di 148 persone consumato dalla cellula keniana di al-Shabaab nel giorno della vigilia del venerdì santo del 2015 all’interno della North-Eastern Garissa University, a 150 chilometri dal confine del Kenya con la Somalia. Nel tempo, è stato anche scritto che per rendersi irriconoscibile, la Lewthwaite si sarebbe sottoposta a interventi di chirurgia plastica e che sarebbe responsabile della morte di 400 persone.
Quattro figli e tre mariti jihadisti
Quello che appare certo è che nei suoi 36 anni di vita, la donna ha avuto quattro figli e tre mariti, tutti jihadisti. Come è altrettanto certo che la terrorista britannica è ricercata per due soli attentati. Il primo risale al 24 giugno 2012, quando all’interno del Jericho Beer Garden nella contea di Mishomoroni (Mombasa), dove si trasmetteva la partita tra Italia e Inghilterra valida per i quarti di finale del campionato europeo di calcio 2012, rimasero uccise tre persone e 25 furono ferite dalle schegge delle granate usate per sferrare l’attacco.
In questo attacco la “vedova bianca” è stata incriminata insieme al britannico Habib Saleh Ghani, noto anche come Abu Usama al-Pakistan, nome con cui predicava nella moschea Jamia Hanfia Taleem nel quartiere londinese di Hounslow. Ghani era legato ad Asif Mohammed Hanif, il primo attentatore suicida islamico della storia della Gran Bretagna, che nel 2003 uccise tre persone in un bar di Tel Aviv dopo essere stato reclutato da Hamas a Damasco. L’altro attentato in cui la Lewthwaite è direttamente implicata è stato compiuto il 9 dicembre 2013, sempre a Mombasa, dove un commando di terroristi ha attaccato un pullman di turisti britannici che stavano andando a visitare il parco nazionale Masai Mara. Fortunatamente, nell’azione non ci furono vittime, né feriti.
Come nel documentario su Netflix, la terrorista britannica viene spesso descritta, soprattutto dai tabloid britannici, come una delle figure ai vertici della struttura di comando di al-Shabaab. Questa ipotesi però dovrebbe essere oggetto di una certa cautela. In primis, perché la cosiddetta jihad difensiva, che è il codice teologico in base al quale tutte le organizzazioni estremiste islamiche combattono, libera esplicitamente tutti dalla normale autorità (il figlio dal padre, la moglie dal marito, lo schiavo dal padrone, il debitore dal creditore) per combattere la guerra santa.
Secondo questa legge, le donne potrebbero e dovrebbero combattere al fianco degli uomini. Eppure, poiché i jihadisti trovano sostegno tra persone socialmente conservatrici, ciò sarebbe impensabile, non ultimo perché coinvolgerebbe una donna che combatte al fianco di un uomo che non è mahram (un parente maschio). Tuttavia, ciò non significa che le donne non possono avere un ruolo fondamentale nel promuovere e partecipare alla causa del jihad, anche se il loro impegno sul campo di battaglia è oggetto di controverse interpretazioni da parte dei propugnatori della guerra santa.
La vedova bianca è certamente una terrorista che potrebbe essere inglobata nella struttura di comando della più letale organizzazione jihadista del mondo, ma esaminando i fatti con attenzione sorge il dubbio che il suo tragico percorso all’interno del jihad sia stato troppo enfatizzato.