Gli Usa non possono ridurre l’impegno militare nel Sahel

Secondo un’analisi di Critical Threats, l’annuncio della diminuzione della presenza militare statunitense nel Sahel costituisce una seria minaccia per la sicurezza e la stabilità dell’intera regione. La maggiore criticità è rappresentata dai governi locali, come quelli del Mali e Burkina Faso, che non solo non sono in grado di sconfiggere definitivamente i vari gruppi jihadisiti attivi nella regione, ma purtroppo sono essi stessi parte attiva del problema.

L’ultima dimostrazione di quanto affermato è arrivata in Mali lo scorso 23 marzo, quando nei villaggi di Ogossagou e Welingara, situati nella regione centrale di Mopti, un gruppo di individui armati non identificati, ha massacrato oltre 160 appartenenti alla comunità di pastori semi-nomadi fulani. Le autorità locali hanno riconosciuto gli autori dell’eccidio in appartenenti alla milizia di autodifesa Dan na ambassagou, formata da dozo, cacciatori tradizionali di etnia dogon.

La milizia di autodifesa dogon era stata armata dall’esercito maliano e dal 2012 supportava il governo nella lotta contro i movimenti jihadisti e i gruppi separatisti tuareg. Secondo le autorità di Bamako, il sanguinoso assalto è stato una rappresaglia contro i fulani per un altro attacco, lanciato una settimana prima da alcuni militanti del Gruppo per il sostegno all’islam ai musulmani (Jnim) – la più recente evoluzione della rete jihadista di al-Qaeda nel Sahel – contro una base dell’esercito maliano nel villaggio di Dioura, sempre nella regione di Mopti, dove sono rimasti uccisi 23 soldati.

Il massacro consumato il 23 marzo è l’episodio più grave in un ciclo di violenze alimentato da gruppi jihadisti come il Jnim che hanno sfruttato le carneficine per espandere la loro influenza attraverso l’Africa occidentale. Per contenere la rabbia dei fulani, che accusano le forze armate di complicità nella strage, il presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, ha rimosso il capo di stato maggiore M’Bemba Moussa e il generale Abdenahmane Baby.

Keita ha inoltre sciolto la milizia di autodifesa Dan na ambassagou, già accusata lo scorso anno da Human Rights Watch di prendere di mira i fulani. Tuttavia, è molto improbabile che l’adozione di tali provvedimenti ponga fine alle violenze. Secondo l’analisi di Ct, l’aumento della violenza etnica deriva dalla povertà, la mancanza di istruzione e l’incapacità degli Stati della regione di assicurare le necessità primarie alle popolazioni locali.

Tuttavia, è anche importante ricordare che la contrapposizione tra dogon e fulani ha origini lontane nel tempo e si è alimentata con la frustrazione e il risentimento dei fulani, che accusano il governo centrale di ignorare le proprie rivendicazioni. I gruppi jihadisti attivi in Mali hanno sfruttato questo atavico malcontento e le incessanti violenze, promettendo giustizia e protezione alle vulnerabili comunità fulani, per attirarle verso il radicalismo.

In questo approccio, è possibile fare un richiamo al defunto Abu Musab al Zarqawi, il jihadista giordano fondatore di al-Qaeda in Iraq (Aqi), che condusse attacchi settari destinati a suscitare ritorsioni per favorire il supporto ad Aqi. Allo stesso modo agisce anche lo Stato islamico, diretta emanazione di Aqi, che ricorre alle stesse tattiche e sta marcando la sua presenza nel Sahel nel tentativo di controbilanciare le sue perdite territoriali in Siria.

Va inoltre evidenziato che la crisi si è estesa al di là del Mali centrale, come dimostra l’affermazione di gruppi jihadisti nel vicino Burkina Faso, che hanno causato un’emergenza umanitaria, minacciando anche la produzione dell’industria mineraria locale e mostrando i primi segnali di espansione verso sud, in Ghana, Benin e Togo.

Le forze di sicurezza del Burkina Faso, come del resto anche quelle maliane, sono state accusate di aver commesso sanguinose e spietate rappresaglie nei confronti dei civili, mentre il traffico di cocaina attraverso la regione è in costante aumento, a diretto beneficio dei gruppi jihadisti.

Tutto questo comporta il rischio di una massiccia espansione del movimento salafita in Africa occidentale, mentre anche la Francia sta cercando di disimpegnarsi dalla regione e le inefficaci risposte degli eserciti del Mali e del Burkina Faso stanno alimentando la crisi. Di conseguenza, conclude l’analisi di Ct, gli Stati Uniti non solo non dovrebbero ridurre il loro impegno militare nel Sahel, ma dovrebbero invece raddoppiare gli sforzi diplomatici per prevenire un disastro umanitario e il collasso della sicurezza nella regione.

Articolo pubblicato su Nigrizia.it

Categorie: Terrorismo | Tag: , , | Lascia un commento

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