Da quando, lo scorso 15 febbraio, in Egitto è stato confermato il primo caso di coronavirus in Africa e tredici giorni più tardi in Nigeria è stato localizzato il primo contagiato anche nella vasta area sub-sahariana, il Sars-CoV-2 ha esteso la sua letale presenza in quasi tutti gli Stati del continente, dove permangono altissimi rischi della diffusione del contagio, misure di contenimento e difficoltà di farle rispettare da parte dei governi.
Le ultime rilevazioni rese note dal Centro africano di controllo delle malattie (Africa Cdc) di Addis Abeba segnalano che il coronavirus ha colpito 50 dei 54 paesi africani nei quali complessivamente si registrano 6.213 casi confermati con 221 decessi e 469 pazienti guariti. Con tutta probabilità, il Sudafrica e i paesi del Nord Africa hanno finora registrato più casi perché avevano più traffico aereo e scambi con l’Europa e perché sono stati condotti più test rispetto ad altre nazioni dell’Africa sub-sahariana.
Nel complesso, ci troviamo di fronte a numeri molto più contenuti di quelli registrati negli Stati Uniti e in Europa e di quelli assai nebulosi giunti finora dalla Cina. Nel frattempo, molti epidemiologi e virologi hanno cercato di trovare una risposta alla minore diffusione della trasmissione del virus nel continente africano. L’opinione più diffusa è basata sul fatto che le persone anziane sono più vulnerabili al Covid-19. Di conseguenza, il contagio in Africa procederebbe più lentamente rispetto al vecchio continente perché la popolazione locale ha un’età media molto più bassa.
Come indicano le statistiche elaborate dal sito canadese Visual Capitalist , uno dei migliori a livello globale per l’infografica, secondo cui l’età media degli europei è di 42 anni mentre quella degli africani arriva a 18. E’ inoltre altamente probabile che il numero dei contagiati sia molto più alto di quelli finora diagnosticati, anche perché in molti giovani il virus si trasmette in maniera asintomatica. Il Covid-19 ha cominciato a espandersi nel continente con almeno due mesi di ritardo rispetto alla Cina e oltre un mese dopo aver colpito l’Europa.
Un lasso di tempo che i deboli sistemi sanitari dell’Africa avrebbero potuto sfruttare per prepararsi ad affrontare la pandemia. Ma i paesi africani non hanno utilizzato questo vantaggio iniziale, attivandosi in modo rapido e deciso per arginare la diffusione del virus all’interno di un continente già tormentato da alti tassi di infezione da Hiv / Aids e tubercolosi. Oltre che da povertà e dalla carenza endemica di adeguate infrastrutture idriche e igieniche, indispensabili per contenere la diffusione della malattia.
Tuttavia, l’Africa ha avuto esperienza con altre gravi malattie infettive come ebola, febbre emorragica di Marburg, morbillo, colera, febbre gialla o altre forme d’influenza, che potrebbe fornire strategie e informazioni utili per far fronte alla diffusione del Covid-19, che anche in Africa sta aumentando rapidamente.
Gli scienziati hanno espresso non poca preoccupazione sui rischi relativi alla diffusione del coronavirus in Africa, data la difficoltà di mettere in atto il distanziamento sociale in molti paesi, che potrebbe innescare una bomba a orologeria.
Se focalizziamo l’attenzione sulla capacità ricettiva degli ospedali e sul numero di unità di terapia intensiva disponibili nei paesi africani, appare evidente che se l’Africa dovesse seguire la traiettoria di trasmissione registrata in Cina, Italia, Spagna e Stati Uniti, sarebbe sufficiente meno di un mese per raggiungere 82mila casi simultanei. Un numero che potrebbe far collassare anche il sistema sanitario del Sudafrica, che per la prevenzione e la cura è il migliore nel continente.
Già prima dell’emergere dei primi casi di contagio, erano stati potenziati i termoscanner per controllare i passeggeri negli aeroporti africani, ma questo sistema di prevenzione da solo non è stato sufficiente a contrastare l’avanzata del virus, che necessiterebbe di adeguati meccanismi di tracciamento dei contatti per i viaggiatori che erano destinati ad “autoisolarsi” in molti paesi.
Oltre al Ruanda, che per primo ha istituito il lockdown e vietato i viaggi tra città e distretti, e più recentemente il Sudafrica, il Lesotho e lo Zimbabwe, le persone si muovono ancora liberamente tra le regioni all’interno dei paesi, facilitando così la diffusione della malattia. Date queste circostanze, potrebbe essere solo una questione di tempo prima che il contagio si intensifichi, in particolare tra i lavoratori che quotidianamente utilizzano i mezzi pubblici affollati e soprattutto nelle aree rurali a basso reddito dove vive la maggior parte degli anziani.
I governi africani dovrebbero andare oltre l’applicazione delle risposte globali, adottandone alcune più specifiche al contesto trovando il modo per incentivare le comunità più vulnerabili a rimanere a casa per evitare un’ulteriore diffusione della malattia, il cui costo in termini di vite umane sarebbe enorme.
Per raggiungere questi obiettivi sarà necessario instaurare una maggiore sinergia tra i paesi africani e sfruttare la lunga esperienza acquisita con le epidemie, la giovane età della popolazione e il dinamico attivismo su internet. Risorse preziose, che possono essere sfruttate a livello comunitario e nazionale per diffondere informazioni e gestire meglio la crisi nel continente.
Articolo pubblicato su Nigrizia.it