Tunisia, 10 anni dopo la fine di Ben Ali domina la disillusione

Sono trascorsi dieci anni da quel 14 gennaio 2011, giorno in cui il movimento di protesta popolare in Tunisia costrinse il presidente Zine el-Abidine Ben Ali a fuggire in Arabia Saudita. Tutto era cominciato meno di un mese prima, il 17 dicembre, quando un fruttivendolo tunisino di 26 anni, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco per protesta contro le autorità nella piazza centrale di Sidi Bouzid, cittadina nell’entroterra dello Stato africano.

Il giovane poche ore prima era stato maltrattato dalla polizia, che lo taglieggiava da mesi, perché non aveva una regolare licenza per vendere la sua merce al mercato. Bouazizi morì pochi giorni dopo a causa delle ustioni riportate e il suo gesto innescò un movimento di protesta popolare senza precedenti. La rivolta causò la morte di circa 300 persone in tutta la Tunisia, ma le proteste di piazza costrinsero Ben Ali a lasciare per sempre il paese, dopo 23 anni di potere assoluto.

Fu il primo dei regimi dittatoriali a cadere in tutta la regione, che dopo la sollevazione del popolo tunisino venne segnata da un’ondata di rivolte contro la corruzione e a favore della democrazia, passata alla storia con il nome di “primavere arabe”. Due parole che racchiudevano la domanda di libertà che accomunava tutti i dimostranti scesi in piazza.

Le rivolte causarono la caduta di regimi autocratici decennali e lo scoppio di conflitti civili, che proseguono ancora oggi; ma solo la Tunisia è riuscita a emergere dalla stagione delle rivolte antiautoritarie con un Governo democratico.

Negli anni successivi alla sua morte, anche lo sfortunato Bouazizi ricevette importanti riconoscimenti, come il premio Sakharov per la libertà di pensiero per il contributo dato a “cambiamenti storici nel mondo arabo” e la nomina di personaggio dell’anno 2011, da parte del quotidiano britannico The Times. Mentre il Governo tunisino lo ha celebrato con un francobollo postale e la municipalità di Sidi Bouzid gli ha intitolato una targa e dedicato un murale.

Dopo una decade, però, nel piccolo centro abitato nel cuore della Tunisia rimangono pochissime tracce della presenza del giovane venditore ambulante; anche la madre e la sorella si sono trasferite in Canada. E purtroppo ben poco rimane anche di tutto quello che avvenne dopo la caduta di Ben Ali e Sidi Bouzid è sempre un povero paese dell’entroterra, vessato dalla pandemia e dalla crisi economica che nemmeno il nuovo governo di Hichem Mechichi riesce a risolvere.

Del resto i dati sono eloquenti: rispetto al 2010, la crescita economica si è dimezzata in tutta la Tunisia e la disoccupazione è un problema gigantesco soprattutto fra i più giovani. Il tasso di disoccupazione nazionale è di circa il 15%, con punte molto più alte nel sud del paese, che costituisce una delle regioni più emarginate, gravate da livelli di disoccupazione superiori alla media, infrastrutture inadeguate e imprese private inesistenti.

La situazione è particolarmente critica nel governatorato di Tataouine, nell’estremo sud della Tunisia, dove quasi il 30% della popolazione è disoccupata, nonostante in questo territorio siano concentrate le più importanti riserve di petrolio del paese e molte risorse naturali (in particolare cave di gesso e marmo). Di fronte a questa dura realtà, la popolazione ha organizzato numerose proteste per fare pressione sulle autorità. Come avvenuto lo scorso luglio, quando i manifestanti hanno bloccato il sito produttivo di El-Kamour, una delle maggiori stazioni di pompaggio di petrolio, che si trova in pieno deserto, a sud della città di Tataouine.

La disoccupazione continua così a intaccare i sogni di gran parte dei giovani, soprattutto nelle regioni emarginate, mentre la situazione è resa ancora più complicata dalla recente crescita esponenziale dei casi accertati di Covid-19. Alle ardue sfide economiche che attendono la Tunisia c’è anche da aggiungere l’ascesa dei nostalgici e lealisti del vecchio regime. Come dimostra la costante salita nei sondaggi del Partito destouriano libero (Pdl), formazione politica di destra ultra-nazionalista e anti-islamista guidata da Abir Moussi, data al primo posto nelle intenzioni di voto degli elettori tunisini.

Ma i dieci anni passati dall’esautorazione di Ben Ali hanno anche prodotto qualcosa di positivo, grazie anche alla lealtà delle forze armate alle istituzioni, che ha consentito di attuare una transizione democratica fino all’adozione di una nuova Costituzione nel gennaio 2014. Una Costituzione che ha gettato le basi per un sistema di Governo semi-presidenziale, accostato ai principi che regolano il costituzionalismo contemporaneo, disposizioni che rispondono al contesto culturale, storico e religioso del Paese, riguardanti nello specifico la religione islamica.

Forte anche di questo risultato, la mediazione della società civile, incoronata dal Premio Nobel per la pace, ha poi potuto conciliare islamisti e nazionalisti. La nazione ha inoltre tenuto una serie di elezioni libere ed eque, ha dato inizio al decentramento e ha introdotto una libertà di stampa senza precedenti nella sua storia. Tutto questo, nonostante le crisi politiche e la minaccia di attacchi jihadisti, che rappresenta ancora un pericolo per il paese (anche se notevolmente ridotto rispetto al 2015, quando si susseguirono numerosi attentati contro turisti stranieri).

E resta il fatto che a oggi, anche se il momento è molto difficile, la Tunisia è l’unica democrazia post primavera araba ad avere prospettive di sviluppo e a rappresentare un modello di stabilità nel mondo arabo. Una democrazia che per continuare ad affermarsi dovrà sempre più tenere conto delle aspirazioni popolari, portate avanti dalla generazione maturata nell’ultimo decennio.

Articolo pubblicato su Eastwest.eu

L’articolo è stato tradotto in spagnolo e pubblicato sul sito web dell’Africa Fundación Sur di Madrid

www.africafundacion.org/tunez-10-anos-despues-del-final-de-ben-ali-domina-la-desilusion-por-marco-cochi

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