Lo sfruttamento illegale delle risorse naturali in Congo

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Può sembrare paradossale, ma l’abbondanza di risorse naturali può trasformarsi in una disgrazia. Come possa accadere si capisce leggendo il nuovo rapporto sul saccheggio delle risorse naturali nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Lo studio pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, denuncia il coinvolgimento di alcuni gruppi criminali militarizzati in un vasto traffico di minerali come oro, legname, carbone e avorio. Un giro di affari quantificato tra i 700 milioni e 1,3 miliardi di dollari l’anno.

In questo business, il commercio dell’oro costituisce una delle maggiori entrate illegali, pari a 120 milioni di dollari l’anno, che i ricercatori dell’agenzia specializzata dell’Onu ritengono che questi fondi siano utilizzati per finanziare oltre 25 gruppi armati (49 secondo alcune stime), congolesi e stranieri, che continuano a destabilizzare la zona orientale del Congo, alimentando continui conflitti in una regione in cui, da quasi vent’anni, le successive ribellioni hanno seminato terrore e caos tra la popolazione locale.

I gruppi armati sono riusciti ad assicurarsi la loro sopravvivenza attraverso strategie collaudate, mentre le reti criminali transnazionali che operano dentro e fuori della RdC, soprattutto nei paesi limitrofi, come Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania, potrebbero cercare di controllare le fazioni in lotta nella RdC orientale seguendo la logica del “divide et impera”.

Per mezzo di quest’antica strategia, cercherebbero di impedire a ogni singolo gruppo di raggiungere un ruolo dominante nel monopolio delle estrazioni rispetto agli altri, evitando, in tal modo, che possa interferire con lo sfruttamento illegale gestito da queste reti. Secondo l’Unep, solo il 2%, equivalente a 13 milioni di euro, degli utili netti dei traffici è destinato ai gruppi ribelli. Tuttavia, si tratta di una cifra idonea a garantire il mantenimento di base di circa 8mila combattenti e permettere alle fazioni sconfitte di riemergere e di destabilizzare la regione.

Il controllo delle zone più ricche di minerali è dunque uno degli elementi che alimentano l’instabilità cronica provocata dalle varie milizie attive nell’est della RdC, soprattutto nella parte orientale, nel Kivu e nel Katanga, province che sfuggono in gran parte alla vigilanza delle autorità statali.

In queste aree viene estratto anche il coltan, un minerale molto duro, denso, resistente al calore e alla corrosione, essenziale per la produzione dei condensatori di computer portatili, telefoni cellulari, dispositivi video, dispositivi audio digitali, console giochi e sistemi di localizzazione satellitare.

Anche in questo caso, il controllo della produzione di questo prezioso minerale è oggetto di contesa da parte dei gruppi ribelli con gravi ripercussioni sulla popolazione locale e sullo sviluppo dell’area. Ma l’aspetto più inquietante è insito nel modo in cui avviene lo sfruttamento dei giacimenti di coltan, dove le persone sono costrette a lavorare quindici ore al giorno per pochi centesimi di dollaro.

Nella RdC si sono combattute diverse guerre per il controllo delle risorse minerarie, che negli ultimi due decenni hanno causato cinque milioni di morti. Per porre fine a queste stragi, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 29 novembre 2010, ha adottato la risoluzione 1952 che richiama gli Stati membri a mettere in atto misure di diligenza ragionevole per conoscere l’origine dei minerali e assicurarsi che il ricavato di quelli importati non vada a beneficio di uomini armati, compresi i militari dell’esercito congolese.

A sua volta, un altro rapporto intitolato Qui Cherche ne Trouve Pas (Chi cerca non trova), fornisce una valutazione completa di 17 operazioni minerarie in tutta la RdC. La ricerca è stata condotta dal Carter Center in collaborazione con la Piattaforma degli organizzazioni della società civile impegnate nel settore minerario (POM), la Casa delle miniere del Kivu, e il Programma di concertazione sulle risorse naturali dell’Ituri.

Le reti hanno utilizzato un “indice di trasparenza”, che misura la completezza, l’accessibilità e l’affidabilità delle informazioni di pubblico dominio per ciascun progetto minerario e assegna punteggi sulla base di tale valutazione. Sulla base di questa tipologia di analisi, sono state riscontrate numerose irregolarità tra cui la mancata pubblicazione da parte del ministero delle Miniere congolese di almeno 62 contratti, emendamenti e rispettivi allegati, in violazione di un decreto governativo che ne impone la pubblicazione di questi documenti entro sessanta giorni dalla loro firma.

Infine, altre segnalazioni di mancata osservanza degli obblighi di trasparenza sul commercio dei minerali nell’Africa centrale giungono dal recentissimo report Digging for Trasparency, realizzato da Amnesty International e Global Witness. Lo studio rivela che quasi l’80% da parte delle società quotate in borsa negli Stati Uniti non verificano correttamente se i loro prodotti contengono minerali provenienti da zone di conflitto dell’Africa centrale e non forniscono sufficienti informazioni a questo proposito. Una prassi che non aiuta certo a rompere i legami fra il commercio di minerali e gruppi armati nella RdC.

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