La controffensiva messa in atto negli ultimi quindici mesi dal presidente Muhammadu Buhari ha costretto Boko Haram al ritiro da molte aree della Nigeria nord-orientale, grazie all’azione della forza di intervento multinazionale congiunta (Mnjtf). Nel frattempo, nei luoghi devastati dai terroristi radicali islamici, la vita potrebbe tornare lentamente alla normalità grazie all’intensa opera di ricostruzione portata avanti negli ultimi mesi dalla comunità internazionale e da numerose ong straniere e locali.
Alcuni dei miliziani, però, sono fuggiti nei vicini paesi transfrontalieri, da dove tentano di organizzare attentati, soprattutto per dimostrare che non sono ancora stati sconfitti. In questo modo, continua ad allungarsi la lunga lista di attacchi armati compiuti dal gruppo islamista ai danni delle truppe dell’esercito nigeriano e della popolazione civile, nell’ambito di una collaudata strategia del terrore.
L’ultimo in ordine di tempo è stato registrato lo scorso 18 luglio nella foresta di Sambisa, dove in uno scontro a fuoco le truppe nigeriane hanno ucciso due insorti armati. Mentre lo scorso 9 luglio era stata attaccata la città di Rann, nel distretto di Kala/Balge, situato nell’area dello stato del Borno, vicino al confine con il Camerun.
Nella zona gli estremisti islamici hanno ucciso sette civili e provocato la precipitosa fuga di numerosi abitanti verso Gamboru, città camerunense a circa trenta chilometri di distanza. Un mese prima, in un assalto, sempre nei pressi di Rann, erano morte altre otto persone.
La situazione appare piuttosto confusa e per gli analisti è praticamente impossibile stabilire l’attuale capacità offensiva di Boko Haram, all’interno del quale ci sarebbero comunque delle tensioni interne. Un dato è però evidente: il movimento jihadista da oltre sedici mesi opera all’interno dello Stato islamico. Un legame ormai consolidato, che secondo un recente studio realizzato dall’IHS Jane’s Terrorism and Insurgency Centre sarebbe più rilevante di quanto comunemente riconosciuto.
L’autorevole centro studi di Englewood (Colorado, Stati Uniti) sostiene che, da quando nel marzo 2015, il gruppo jihadista nigeriano ha giurato fedeltà all’IS, si è registrato un aumento del numero e della letalità di attacchi suicidi in Nigeria e nei paesi limitrofi. L’escalation della violenza e l’uso impressionante di giovani donne kamikaze richiamano le più comuni tattiche operative adottate dallo Stato Islamico. Gli analisti dell’IHS hanno rilevato un notevole potenziamento delle capacità di comunicazione di Boko Haram, grazie alle elaborate tecniche utilizzate dal Califfato.
Il gruppo ha prodotto video e messaggi audio nel quadro di una più complessa ed estesa strategia di potenziamento della propaganda jihadista, che si realizza postando in rete filmati di attacchi, che alternano l’arabo alla locale lingua hausa e criticano duramente chi sostiene il governo centrale di Abuja. Ciononostante, alcuni funzionari dell’intelligence statunitense non ritengono che dal suo giuramento di fedeltà ad oggi, Boko Haram abbia ricevuto un rilevante supporto operativo o finanziamenti dallo Stato islamico.
Nella realtà dei fatti, quello che non lascia spazio a divergenze di opinioni è che gli islamisti nigeriani non sono più in grado di colpire le grandi città e si limitano a operazioni nell’area del lago Ciad. Tuttavia, il gruppo terroristico conserva ancora parte della sua capacità offensiva e continua a mietere vittime soprattutto nello stato di Borno, dove è ancora strutturato.
Nel frattempo, l’esercito nigeriano accusato da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie di torture, uccisioni extra-giudiziarie e arresti arbitrari perpetrati nel corso delle operazioni militari contro gli estremisti, ha annunciato di avere liberato 249 detenuti, tra cui 69 uomini, 46 donne e 34 minori, fermati perché sospettati di essere legati al gruppo islamista.
Le indagini svolte dalle forze di sicurezza nigeriane successivamente alla cattura dei 149 indiziati, non avrebbero evidenziato alcuna prova che testimonierebbe la loro appartenenza al gruppo jihadista. Mentre pochi giorni fa, Amnesty International ha denunciato anche quanto sta avvenendo in Camerun, dove centinaia di persone sono state catturate per presunti legami con il movimento fondamentalista nigeriano.
L’Ong che lotta per il rispetto dei diritti umani ha accertato che molte delle persone arrestate sono morte e altre rischiano la vita per le brutali condizioni, in cui sono detenute nelle carceri camerunensi. La maggior parte degli arrestati sono presunti sospetti, dato che non è mai stato garantito loro un processo, né tantomeno la possibilità di nominare un avvocato.
Secondo quanto documentato da Amnesty International, dal 2015 a oggi più di cento persone, donne comprese, sono state condannate alla pena di morte dopo processi sommari, basati su scarse prove che i soggetti avessero davvero legami con Boko Haram. La situazione peggiore è stata riscontrata nel carcere di Maroua, dove i reclusi sarebbero torturati e picchiati fino a perdere conoscenza, altri fino alla morte.
Le pesanti accuse non hanno trovato risposta da parte del governo di Yaoundé, che sembra voler ricorrere a ogni mezzo per sconfiggere la minaccia di Boko Haram.