Il letale destino dei soldi del riscatto di Silvia Romano

“A House in the Sky” è il titolo di un libro incluso nella lista dei bestseller del New York Times, che ripercorre nei dettagli le drammatiche vicende del sequestro e della prigionia della giornalista freelance canadese Amanda Lindhout, rapita il 23 agosto del 2008 da una cellula di estremisti islamici a Mogadiscio. Nel memoriale, scritto a quattro mani insieme alla collega americana Sara Corbett, la reporter ripercorre i 460 interminabili giorni del sequestro.

Durante i quali fu vessata, violentata, aggredita, torturata e costretta a convertirsi dai suoi carcerieri alla fede islamica con il nome di Amina. Al suo ritorno in Canada, la conversione della coraggiosa giornalista canadese non suscitò lo scalpore che ha accompagnato la scelta di abbracciare la dottrina del Corano operata da Aisha, il nuovo nome con cui Silvia Romano ha abbracciato la dottrina islamica. Probabilmente, perché quella della Lindhout fu una conversione imposta, mentre quella della giovane volontaria milanese è stata una scelta prodotta dalla lettura del Corano consumata durante i lunghi giorni della prigionia.

Una scelta che ha scatenato commenti di ogni sorta sui social e letture assai diverse sulla stampa nazionale. Lasciando da parte i giudizi affrettati e inopportuni, che non può formulare chi non ha vissuto una simile esperienza e magari durante gli appena trascorsi 55 giorni di lockdown casalingo ha accusato sintomi di depressione, ansia, insonnia e stress da quarantena, siamo lieti che la dolorosa vicenda abbia avuto un lieto fine e la ragazza sia tornata nella sua casa di Milano nel quartiere di Casoretto, circondata dall’amore dei genitori e della sorella.

Certo chi conosce la storia, le modalità operative e la caratura criminale di al Shabaab rifletterà sul fatto che come spiegato dal portavoce del gruppo estremista somalo al Shabaab, Ali Dehere, parte del pagamento del congruo riscatto pagato per la liberazione di Silvia Romano servirà anche ad acquistare nuove ami per proseguire il jihad contro gli infedeli.

Seguendo da diversi anni l’evoluzione del gruppo jihadista somalo, più che sulla nuova religione e sul jilbab indossato dalla giovane cooperante al suo arrivo a Ciampino, mi soffermerei proprio sulla valutazione che il denaro arrivato nelle casse dell’organizzazione affiliata ad al Qaeda produrrà nuovi lutti e distruzioni nella martoriata Somalia e anche in Kenya.

Dalle dinamiche finora trapelate dei 18 mesi di prigionia della ragazza, emerge che le temibili ramificazioni keniane di al Sahabaab siano state depotenziate dalla lunga attività di contrasto dell’intelligence e delle forze di sicurezza keniane. Altrimenti il lungo rapimento di una giovane occidentale, che avrebbe fruttato milioni di dollari sarebbe stato gestito direttamente dalla locale cellula di Jaysh Ayman senza dover portare l’ostaggio a Mogadiscio, distante più di 1.300 chilometri dal piccolo villaggio di Chakama nella contea di Kilifi, in Kenya, dove la giovane è stata rapita.

Se si ripercorre la scia di sangue seminata dai miliziani di Jaysh Ayman si capisce perché il fatto che parte dei soldi del riscatto saranno impiegati anche per rinvigorire la capacità offensiva di questa fazione provoca autentico sgomento. Torniamo alla metà del 2011, quando Nairobi cominciò a dispiegare le sue forze di difesa (Kdf) in Somalia. Pochi mesi dopo, al Shabaab iniziò a infiltrarsi in Kenya attraverso una cellula locale nota come Al-Hijraha, che reclutava autonomamente manodopera per la diffusione del jihad nella sviluppata nazione africana.

L’incessante attività di proselitismo di Al-Hijraha ha prodotto la formazione della fazione di Jaysh Ayman, così chiamata in onore del suo fondatore Maalim Ayman, alias Abdiaziz Dobow Ali, originario della contea di Mandera. I miliziani di questa cellula sono in gran parte nativi della parte costiera del Kenya, ma al suo interno hanno militato anche alcuni jihadisti stranieri.

Jaysh Ayman ha svolto un ruolo di primo piano in molti degli attacchi terroristici che hanno insanguinato il Kenya, come prova il ruolo chiave svolto da uno dei suoi membri di spicco, Abdilatif Abubakar Ali, nella pianificazione e nell’esecuzione dell’assalto al Westgate Shopping Mall di Nairobi. Attacco che nel settembre 2013 costò la vita a 67 persone prese in ostaggio all’interno del centro commerciale, tra le quali anche numerosi turisti di tredici diverse nazionalità.

Il battesimo del fuoco della cellula di Jaysh Ayman risale al giugno 2014, quando circa cinquanta miliziani armati fino ai denti bersagliarono il bar di un hotel nella città costiera di Mpeketoni, uccidendo quarantotto tifosi riuniti per assistere all’incontro dei mondiali di calcio del 2014 tra Brasile e Messico. Solo due settimane dopo, Jaysh Ayman portò a compimento un’altra carneficina massacrando 29 persone nel villaggio di Hindi nell’area turistica di Lamu. Da allora, la cellula keniana di al-Shabaab ha compiuto oltre cento attentati in città keniane confinanti con la Somalia come, Wajir, Garissa, Lamu e Mandera.

In quest’ultima località, nel novembre 2014, i miliziani di Ayman, attaccarono un autobus uccidendo 28 persone a sangue freddo. Secondo testimoni locali, i passeggeri furono fatti scendere dall’autobus e divisi in due gruppi: somali e non somali. Questi ultimi furono costretti a leggere versetti del Corano e chi non era in grado di farlo venne giustiziato sommariamente.

La stessa dinamica utilizzata nel corso del micidiale attacco del 2 aprile 2015 alla North-Eastern Garissa University per profanare la vigilia del venerdì santo della Pasqua cristiana. Un manipolo di terroristi guidati dal jihadista keniano Mohamed Mohamud Kuno, alias Dulyadin, fece irruzione all’interno dell’Ateneo, situato a 150 chilometri dal confine del Kenya con la Somalia.

I terroristi entrarono nei dormitori degli studenti e iniziarono a chiedere chi erano i cristiani e i musulmani. Questi ultimi furono immediatamente liberati mentre ai cristiani spararono sul posto e qualcuno venne anche decapitato. La mattanza si concluse con 147 morti e 79 feriti. Poi, il 15 gennaio 2019, le cellule keniane di al-Shabaab tornano ancora a colpire Nairobi prendendo d’assalto il lussuoso complesso alberghiero DusitD2, nel cuore della capitale, dove sono stati uccisi 14 civili.

Nairobi venne anche attaccata il 7 agosto 1998 dalla cellula di al Qaeda operativa in Africa orientale, guidata dal comoriano Fazul Abdullah Mohammed, futuro leader militare di al-Shabaab. L’ attentato kamikaze uccise 213 persone e rase al suolo l’ambasciata americana nella capitale, che venne fatta esplodere quasi in simultanea con quella di Dar es Salaam in Tanzania.

Forse, sarebbe legittimo indignarsi per il fatto che tutto questo orrore potrà essere alimentato dai soldi del riscatto pagato per la liberazione di Silvia Romano piuttosto che per la sua conversione all’Islam.

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