L’attacco del 7 dicembre contro i peacekeeper della Monusco nel Congo è il più grave tra quelli subiti negli ultimi 25 anni dalle Nazioni Unite. Il governo accusa le Forze democratiche alleate (Adf), un gruppo ribelle ugandese di ispirazione islamica, tacciato di jihadismo. Ma la crisi politico-istituzionale, che da un anno destabilizza il paese, alimenta le violenze in tutta la nazione. E nelle accuse alle Adf, qualcosa non torna.
«Un atto spregevole e codardo, perpetrato contro donne e uomini al servizio della pace: un crimine di guerra, che non deve assolutamente rimanere impunito». Così, ieri il ministro francese degli Affari Esteri e per l’Europa, Jean-Yves Le Drian, ha condannato l’attacco nella Repubblica democratica del Congo (RdC), che lo scorso 7 dicembre, ha ucciso 15 uomini della Monusco e 5 soldati dell’esercito congolese (Fardc) nellabase di Semuliki, vicino alla città di Beni, nel Nord Kivu.
L’assalto contro la missione di peacekeeping è uno dei peggiori nella storia recente delle Nazioni Unite, che non subivano un attacco di questa portata dal giugno 1993, quando a Mogadiscio, le milizie del generale Mohammed Farah Aidid uccisero 26 caschi blu pakistani, mentre tentavano di occupare la stazione radio controllata dal signore della guerra.
La responsabilità dell’attacco,nel quale sono morti anche 72 assalitori, è stata attribuita alle Forze democratiche alleate (Adf). Un gruppo di ribelli ugandesi di ispirazione islamica nato nel 1996, tra i più attivi nelle due province orientali del Nord e del Sud Kivu, la cui base è situata sulle montagne del Rwenzori, conosciute anche come Montagne della Luna, che si dipanano lungo il confine tra Uganda el’estrema regione orientale del Congo.
Responsabili di molti massacri
Il governo congolese e la Monusco da tempo accusano il gruppo ribelle di essere responsabile di molti massacri, violenze e stupri, che si sono ripetuti costantemente a partire dall’ottobre 2014. Solo da giugno a novembre di quest’anno, il barometro sulla sicurezza per il Kivu (istituito da Human Rights Watch e dal Gruppo di studi sul Congo) ha registrato che le bande armate attive nell’area hanno provocato 526 vittime fra i civili, per lo più nella zona attorno alla città di Beni. La maggior parte delle uccisioni è attribuita ai ribelli delle Adf.
Nel febbraio 2016, le Adf hanno conquistato diversi presidi militari dell’esercito congolese, hanno ucciso civili e bruciato le loro case a Eringeti, a nord di Beni. Il 14 agosto dello stesso anno, i ribelli hanno fatto irruzione nel quartiere di Rwangoma, nella città di Beni, dove a colpi di machete hanno massacrato almeno 64 persone a e poi gettato i loro corpi in un fiume vicino. Mentre lo scorso 5 luglio, hanno attaccato nelle località di Tenambo, Nzanza e Mamiki, nei pressi della cittadina di Oicha, a 30 chilometri da Beni, dove hanno ucciso almeno nove persone, tra cui cinque donne.
Gli attacchi contro le basi della Fib
Quella dello scorso 7 dicembre, non è stata la prima volta che le Adf preso di mira il personale della missione di pace delle Nazioni Unite. Nel maggio 2015, avevano già attaccato una base della Force Intervention Brigade (Fib) presidiata da truppe tanzaniane, sudafricane e malawiane, uccidendo un peacekeeper del Malawi. Mentre lo scorso ottobre hanno di nuovo assaltato una base della Fib a Mamundioma, a nord est di Beni, uccidendo due caschi blu e ferendone più di venti.
La dubbia tesi jihadista sostenuta da Kinshasa
Il governo congolese ha più volte bollato le Adf come gruppo terrorista jihadista, sostenendo chealcuni dei suoi membri sarebbero in contatto con i principali gruppi estremisti islamici africani, come al-Shabaab e Boko Haram. Tale ipotesi sarebbe comprovata dalla presenza, nelle file delle Adf, di ugandesi, somali, keniani, ciadiani e sudanesi. Tuttavia, la tesi jihadista del governo è tutta da provare perché i massacri compiuti dal gruppo non sono mai rivendicati, come avviene per quelli commessi da altri gruppi estremisti attivi in molte parti dell’Africa.
Le Adf non hanno mai emesso comunicati, né sono attive sui social network jihadisti. Inoltre, non rispondono a una logica di reclutamento di nuovi proseliti per l’istituzione di un Califfato nella regione dei Grandi Laghi, bensì perseguono una strategia di insediamento territoriale, soprattutto in alcune zone nei dintorni di Beni, considerate off-limits per la popolazione locale. Di conseguenza, la connotazione jihadista impressa dal governo alle Adf potrebbe essere un semplice espediente per assicurarsi il sostegno della Comunità internazionale.
La crisi politica alimenta le violenze
C’è anche da tenere in considerazione, che in un recente aggiornamento della situazione del conflitto nell’est del Congo, pubblicato da Human Rights Watch, è riportato che l’aumento delle violenze nell’area “è dovuto alla crisi politica generale del paese”. La decisone del presidente Joseph Kabila di rimanere al potere, anche dopo la fine del mandato scaduto un anno fa, e i continui rinvii delle elezioni hanno alimentato una serie di reazioni violente in tutta la nazione centroafricana, tra cui la recrudescenza della ribellione nelle province orientali del Congo.
Kabila sta continuando a governare adducendo ragioni di sicurezza, dovute proprio alle rivolte interne e alla “dubbia” minaccia del terrorismo. Finora, è riuscito a mantenere la carica almeno sino al gennaio 2019, dopo che in spregio dell’Accordo di San Silvestro, che prevedeva la convocazione di nuove elezioni entro la fine di quest’anno, ha stabilito che non si andrà al voto prima del 23 dicembre 2018.
Nel frattempo, nel Nord Kivu le violenze continuano e oltre all’Adf ci sono anche altri gruppi armati. E la Rete per la Pace nel Congo ritiene che «forse a qualcuno interessa fomentare, sotto la sigla delle Adf, l’insicurezza e i massacri, per poi presentarsi come l’unico in grado di riportare l’ordine»